Dio, nella sua misericordia, è vicino a chi lo cerca.
29 Settembre – XXVI DOMENICA TEMPO ORDINARIO.
Dio, con la sua misericordia, è vicino a chi lo cerca.
Se le vie di Dio non sono le nostre vie e la sua giustizia non corrisponde alla nostra giustizia, come ci diceva la Parola di Dio domenica scorsa, oggi, il Signore ci dice che egli tiene conto del nostro cammino di conversione, per vivere secondo la sua giustizia, camminare nelle sue vie e vivere secondo la sua volontà.
Tutte le volte che viviamo l’Eucaristia noi prendiamo parte al memoriale della passione, morte e risurrezione del Signore. In essa sperimentiamo la misericordia del Signore, che continua ad accogliere i peccatori pentiti nel cuore, promette « vita e salvezza a ogni uomo che desiste dall’ingiustizia », rende con il suo Spirito docili alla sua parola e dona gli stessi sentimenti del suo Figlio Gesù Cristo. Dall’essere commensali alla stessa mensa non possiamo non condividere con i fratelli ciò che il Signore nella sua provvidenza ci dona, così non possiamo ammettere l’ingiustizia, il disprezzo dei fratelli che sono nelle necessità: dalla condivisione del pane eucaristico deve derivare l’impegno di aiutare i fratelli, affinché nessuno soffra la necessità, e conseguire i beni promessi della eredità eterna che l’Eucaristia ci fa già pregustare, come recita la Colletta di questa domenica.
Nel nostro rapporto con Dio, anche noi, spesso, per le nostre debolezze, non ci poniamo in sintonia con la volontà di Dio. Ma il Signore nel Vangelo e il profeta Ezechiele ci dicono che colui che si allontana dal male commesso e si pente o chi, come il figlio della parabola, ripensando al suo rifiuto, si dispone a compiere la volontà di Dio e a lavorare per il suo regno, allora può sperare nella sua misericordia, che perdona e riaccoglie.
I farisei, a cui Gesù chiese chi avesse adempiuto alla volontà del padre, se colui che ha detto “ di non averne voglia ” ma " poi " l’ha adempiuta o l’altro che ha detto prima “sì” ma “poi” non l’ha fatta, risposero che il primo, pendendosi, si era adeguato al volere del Padre. Così Gesù, dice loro, che i peccatori, pubblicani e prostitute, sarebbero passati avanti nel Regno di Dio, perché questi hanno creduto nella via della giustizia predicata da Giovanni, loro invece no.
Per il Signore, infatti, c’è un “prima” e un “poi”, che fa la differenza, un tempo esistenziale di ripensamento, di ravvedimento, lungo o corto che sia, che può far cambiare dinanzi al Signore, la nostra prospettiva di vita, per il “nostro oggi” e per il “domani nel suo Regno”.
Prima Lettura: Ez 18,25-28.
Ognuno è responsabile personalmente delle proprie azioni, del bene o del male che compie. Così, dice il profeta nel nome di Dio, « se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male, e a causa di questo muore, egli muore per il male commesso. E se il malvagio si converte dalla sua malvagità … e compie ciò che è retto e giusto, fa vivere se stesso ». L’uomo, nella libertà di cui Dio lo ha dotato, può compiere azioni buone o azioni malvagie e, in base a queste, egli viene o condannato o fatto vivere. In base a questa possibilità di ritrarsi dal male il peccatore può allontanarsi dalle colpe commesse e vivere.
Seconda Lettura: Fil 2,1-11.
Il cristiano che è animato dalla carità, dal conforto di Dio, dalla comunione di spirito, da sentimenti di amore e compassione, deve vivere nella concordia e avere sentimenti unanimi, escludendo ogni forma di rivalità o vanagloria nel relazionarsi con gli altri e operare con « umiltà e senza cercare il proprio interesse ma quello degli altri ». In tutto questo si deve avere come modello Gesù Cristo, il quale pur essendo nella condizione di Dio, non « ritenne un privilegio essere come Dio, ma svuotò se stesso, assumendo la condizione di servo … umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. …. Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome …». Così, conclude Paolo, bisogna avere gli stessi sentimenti che hanno animato Cristo e di proseguire, nel suo spirito, il suo modello di realizzazione della nostra dignità di figli di Dio.
Vangelo: Mt 21,28-32.
Davanti a Dio non bastano le buone intenzioni, bisogna agire operando la volontà di Dio come ha fatto Gesù e fare come il figlio della parabola che pur avendo detto, in un primo momento, di “non averne voglia” di andare a lavorare nella vigna, poi, pentitosi, vi andò, a differenza del secondo che disse subito di “sì”, ma poi non andò. Così, dice Gesù, i pubblicani e i peccatori pentiti, con la loro fede e conversione, precedono nel Regno di Dio tutti quelli che, ritenendosi giusti, non compiono la volontà del Signore. Deve esserci sempre un ravvedimento, a cui deve seguire la presa di coscienza di essersi allontanati dalla dignità di figli di Dio, ritornando pentiti e convertiti a lui, come pure è detto della parabola del figlio prodigo che, “ritornò in sé” e “pentito”, ritornò all’abbraccio del padre, che lo attendeva. Anche nella vicenda di Zaccheo, avviene questo cambiamento stabile di vita, con il proposito di restituire ciò che aveva rubato. I peccatori, che avvertono la consapevolezza di essere nel male, sono più aperti e ricettivi di coloro che, appagati da una giustizia formale, non corrispon- dono a quella che Dio vuole da loro, non accolgono l’invito a convertirsi e si chiudono al dono della grazia di Dio. Chi allora non si pente e non accoglie nella sua vita la volontà di Dio, pur avendo visto e sperimentato tutto ciò che Dio ha fatto e detto, non può entrare nel suo Regno: chi, infatti presume di essere già giusto non ha orecchie per ascoltare il vangelo della misericordia che Dio ha rivelato nel suo Figlio, il quale è venuto perché il mondo sia riconciliato e salvato.
Da quello che il Vangelo, nelle varie situazioni in cui si trova l’uomo, ci ha mostrato, davanti a Dio non contano solo parole di risposta alla sua volontà, ma l’adempimento di essa, non eseguita solo formalmente, ma con la consapevolezza di fede e di amore che dobbiamo a Dio, ad imitazione di Gesù, camminando nel nostro “oggi”, in cui, se per la nostra fragilità sperimentiamo il male, non dobbiamo disperare della misericordia che il Signore ha riversato sull’uomo. Bisogna pregare perché il Signore ci faccia conoscere le sue vie e ci guidi nella sua fedeltà. Che il Signore non ricordi i peccati e le nostre ribellioni, ma si ricordi di noi nella sua misericordia, che ci indichi la via e ci guidi, nella nostra povertà, secondo la sua giustizia.
Ultimo aggiornamento (Sabato 27 Settembre 2014 19:27)
Dio, nella sua bontà e generosità, è più grande dei nostri meriti.
21 SETTEMBRE - XXV Domenica del Tempo Ordinario.
Dio, nella sua bontà e generosità, è più grande dei nostri meriti.
Tutti siamo chiamati dal Padre celeste a lavorare nella sua vigna, ovvero nel suo regno, ognuno nel suo tempo e quando ci raggiunge il suo invito, la sua chiamata. Anche le vie e le modalità con cui il Signore ci chiama sono diverse da quelle che possono essere le nostre vedute o le nostre modalità diricompensa per averlo seguito. Tutti, senza discriminare nessuno, Dio Padre invita a partecipare al banchetto di nozze del suo Figlio, banchetto che siamo chiamati a vivere nell’Eucaristia, celebrata, la Domenica, nel giorno della risurrezione del suo Figlio. « Le sue vie, - diciamo nella preghiera iniziale di questa domenica - distano dalle nostre vie quanto il cielo dalla terra » e siamo invitati a aprire il nostro cuore e la nostra mente alle parole che il Signore Gesù ci rivolge, per comprendere che lavorare nella sua vigna è per gli uomini un impagabile onore. Comprendiamo ciò solo se siamo animati da quell’amore che Gesù ci chiede di vivere, verso il Padre, lui e verso i fratelli, in un servizio per il suo regno e non tanto per quella che potrà essere la ricompensa che ne deriva dall’aver speso il nostro tempo, più o meno lungo, a lavorare nella vigna del Signore. La grandezza evangelica del discepolo sta appunto nell’imitare il Signore che ha detto di essere venuto per servire.
Né possiamo biasimare Dio perché coniuga giustizia e misericordia secondo il suo insondabile agire: vorremmo forse applicare a Dio i nostri parametri, molto spesso intrisi di egoismo, di interessi umani, di compromessi poco onorabili? Vorremmo forse un Dio a nostra immagine o dobbiamo noi agire e pensare secondo Lui, di cui siamo immagine? Dio agisce ed opera nei confronti degli uomini nella gratuità e nell’amore e non come noi che pensiamo di meritare di più perché pensiamo di essere buoni e possiamo aver servito di più il Signore.
Che immagine abbiamo di Dio, che agisca e pensi come noi? Il suo agire è imprevedibile e non è soggetto a sentimentalismi, ad umori vari o ad interessi di felicità o di altro genere: egli ci ha amato tanto da dare, dice Gesù a Nicodemo, il suo stesso Figlio, come vittima per i nostri peccati e così riconciliarci con lui. Quello di Dio è un amore di gratuità che ci precede e supera i nostri schemi.
Da tutto ciò, forse, dovremmo ricomprendere la corretta relazione che dobbiamo avere con Dio, Creatore e Padre.
Prima lettura: Is 33,6-9.
Il brano del profeta Isaia invita alla conversione al Signore non solo l’empio, a cui si fa riferimento in maniera particolare, ma ogni uomo, perché, se l’empio abbandona la sua via e l’iniquo i suoi pensieri e ritornano al Signore, essi trovano in lui misericordia, in quanto Dio è disposto a perdonare largamente.
Cercare il Signore e invocarlo, ritornare a lui, come ci viene detto dal profeta, è nell’Antico Testamento un messaggio ricorrente che ridà all’uomo peccatore la speranza di potere sempre corrispondere all’amore di Dio. Il modo di pensare e di agire di Dio non è quello degli uomini che, spesso, sono propensi, ad operare in maniera diametralmente opposta a quella di Dio: le sue vie non sono le nostre vie, né i suoi pensieri i nostri; questi e quelle ci sovrastano e ci superano abbondantemente, tanto da non poterne misurare le distanze. Solo allontanandosi dal male e ritornando pentiti al Signore possiamo trovare perdono e restaurare la nostra vita, che i peccati di superbia, di orgoglio o di iniquità di ogni genere deturpano.
Per il popolo d’Israele, deportato in Babilonia, è molto più importante cercare il Signore che non una patria terrena. La liberazione che i deportati attendevano è diversa da quella che il Signore vuole realizzare per tutti gli uomini.
Seconda Lettura: Fil 1,20-24.27.
San Paolo ci ricorda che noi siamo e apparteniamo al Signore, sia che viviamo, sia che moriamo. La nostra vita di creature, fatte a immagine e somiglianza di Dio, non possiamo viverla sganciati da Lui. Se moriamo graditi al Signore è un guadagno per noi, sostiene Paolo; se continuiamo a vivere in Cristo e per lui e la nostra vita serve per lavorare con frutto nella “vigna del Signore” e per il suo Vangelo, che ben continui la nostra esistenza. Si porrebbe per tanti la difficoltà di scelta: e quale uomo, e anche il cristiano, non sceglierebbe forse di restare in vita, specie se siamo attaccati a questa vita più che a quella che avremmo in Dio? Occorre, allora, essere disponibile all’una o all’altra scelta e accogliere quel che il Signore dispone per ognuno di noi. Lavorare nella vigna del Signore è certamente la cosa più importante.
Vangelo: Mt 20,1-16.
Ascoltando oggi la parabola evangelica dei vignaioli, chiamati a lavorare nella vigna di quel padrone che dà, alla fine della giornata di lavoro, la stessa paga, pur avendo ognuno lavorato un periodo più o meno lungo della giornata, siamo chiamati a ricomprendere la corretta relazione che dobbiamo porre nei confronti di Dio, Creatore e Padre: viverla alla maniera con cui Gesù l’ha vissuta, cioè nella piena disponibilità alla sua volontà, pensando ed agendo secondo le sue vie e i suoi pensieri.
Dio, nella sua generosità, poiché agisce per amore verso tutte le sue creature e non per tornaconto, elargisce i suoi doni secondo il suo modo divino di agire e non secondo il modo di pensare o operare dei vignaioli . Se noi guardiamo più al merito per il lavoro svolto bene o al tempo lavorativo, Dio guarda alle necessità che può avere ogni uomo nella gestione della propria esistenza e di coloro con cui la condivide, così da dare un senso al lavoro e alla dignità di tutti coloro che lavorano per il suo regno. Non possiamo essere invidiosi di come Dio elargisce i suoi doni, né sindacare sul suo insondabile disegno di salvezza. Come nel dare la retribuzione il padrone inizia dagli ultimi dando un denaro a testa e coloro che protestano, pur avendo faticato tutto il giorno, ricevano anch’essi la stessa paga, Gesù, volendo far risaltare il modo giusto di agire di quel padrone che dà ai primi chiamati quanto pattuito e agli ultimi « Quello che è giusto ve lo darò », vuole farci comprendere che la misura del giusto è secondo il metro di Dio e non secondo il nostro. Se infatti guardiamo alla logica degli uomini: “tu hai prestato il tuo lavoro e io ti ho ricompensato con quello pattuito”, il padrone della parabola e Dio, sarebbero secondo il nostro modo di pensare e agire ingiusti, ma in un rapporto di amore entrambi hanno agito per pura gratuità e benevolenza.
Anche nella parabola del Figlio prodigo, la reazione del figlio maggiore all’atteggiamento di amore del padre parte da una logica puramente di interesse umano che non comprende l’agire misericordioso del padre, che riabbraccia il figlio ritornato pentito.
Se si continua a pensare a Dio in forma antropologica, elevando a lui, alla somma potenza, la proiezione della nostra umanità, anche e solo negli aspetti di bontà nostra, allora non possiamo comprendere la logica e l’operato del Dio di Gesù, che agisce secondo la sua misericordia, la sua generosità, il suo desiderio di riportare l’uomo al suo amore e secondo giustizia, ma intrisa di amore gratuito.
Nel significato evangelico non possono accampare più diritti, né il popolo ebreo, chiamato per primo a partecipare al regno di Dio, né i cristiani delle prime ore dell’annunzio evangelico rispetto ai pagani, chiamati all’ultimo momento, né dobbiamo essere invidiosi noi di fronte alla bontà e alla generosità di Dio. Bisogna essere contenti di ciò che Dio nella sua immensa bontà elargisce ad ognuno, al di là del merito di ognuno di noi. Chi può vantare d’altronde davanti un qualche merito?
Il Dio crocifisso, per chi crede in lui, ridona la Vita,
14 SETTEMBRE – XXIV DOMENICA del TEMPO ORDINARIO.
Il Dio crocifisso, per chi crede in lui, ridona la Vita.
Cristo con la sua croce ha redento il mondo e ciò sembra agli occhi di questo mondo qualcosa di inconcepibilmente paradossale: che un Dio abbia potuto esprime il suo amore per l’uomo attraverso la morte in croce del suo Figlio, fattosi uomo. Così un segno di umiliazione, di sofferenza e di morte diventa segno di liberazione dal peccato, di vita rinnovata dell’umanità nella comunione con Dio, di glorificazione del Figlio e promessa di salvezza e di risurrezione per gli uomini: « Dio nell’albero della Croce ha stabilito la salvezza dell’uomo, perché donde sorgeva la morte di là risorgesse la vita ». Così, anche in noi, la vita divina si rinnova quando nella fede e nella speranza della Croce, cioè nelle sofferenze e in comunione con le sofferenze e il dolore redentivo di Cristo, ne diveniamo partecipi. La Croce, in cui il Signore è stato confitto, non dobbiamo ridurla a simbolo culturale o ornamentale ma segno di cui gloriarci, perché, guardando il Dio crocifisso e ed immedesimandoci nella sua passione, possiamo essere nella fede salvati.
La croce del Signore, dice san Paolo, come supplizio e patibolo, che infligge sofferenza e morte, irrisa da chi ha fortemente contrastato il cristianesimo, su cui anche oggi vengono condannati dei cristiani, è stata considerata, allora come anche dagli uomini di oggi, uno scandalo e una stoltezza di cui vergognarsi più che gloriarsi. Ma in questo albero, attraverso l’obbedienza del Figlio, Dio ha stabilito la salvezza dell’uomo, in contrapposizione all’albero per cui, per la disobbedienza del primo uomo, questi aveva interrotto il rapporto con il creatore.
Spesso, davanti all’agire di un Dio che per mezzo del suo Figlio crocifisso ha ridato all’uomo la salvezza o davanti alla sofferenza degli innocenti, l’uomo si chiede: « Cosa fa Dio di fronte al male che l’uomo compie e di fronte alla sofferenza? Perché non ferma la mano di chi compie il male ? Non poteva Dio evitare che il Figlio morisse, o che agli ’uomni, specie agli innocenti, non capitino sofferenze e morte?». Gesù, Parola che il Padre rivolge all’uomo, che sale sulla croce per amore al Padre e all’uomo, è la risposta definitiva di Dio al male e al male morale dell’uomo. Attraverso la sofferenza e la morte, Gesù con la potenza della sua resurrezione ha vinto il male e la morte, la quale credeva di aver ucciso il Figlio di Dio, ma aveva, come dice un autore antico, ingoiato il « Dio della vita »: così il male e la morte sono stati sconfitti per sempre.
Tutto questo mistero di salvezza, incomprensibile per l’uomo, che davanti al male ricevuto pensa subito alla vendetta, per Dio è espressione di amore che Egli ha per le sue creature, poiché non tollera che l’uomo creato per amore a sua immagine, potesse essere lontano dal suo amore di Creatore e Padre. La risposta di Dio al male non è rispondere con il male, ma con il perdono, per cui Gesù dalla croce esclama: « Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno » (Lc 23,34) e san Paolo ripete: « Se i dominatori di questo mondo avessero conosciuto il mistero della sapienza di Dio », realizzatosi in Gesù, suo Figlio, « non avrebbero crocifisso il Signore della gloria » (1Cor 2,7).
Prima Lettura: Nm 21,4-9.
Nel serpente di bronzo che Mosè per ordine di Dio eleva sopra un’asta, per essere segno di guarigione per gli Ebrei che nel deserto, ribellatisi a Dio, per punizione, sono morsi da serpenti velenosi e solo guardandolo sarebbero stati risanati, è preannunziata l’elevazione da terra di Colui che ha detto: « Quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me », cioè di Cristo crocifisso che, prendendo su di sé le nostre iniquità, ci avrebbe risanato dai morsi del peccato e del maligno.
Seconda Lettura: Fil 2,5-11.
San Paolo, in questa celebrazione della Esaltazione della Santa Croce, ci ricorda che essa è per il seguace di Cristo, non motivo di vergogna o ignominia, ma di gloria, perché per mezzo di essa, Gesù Cristo, pur essendo di condizione divina, nel suo essere come Dio, si è abbassato, annientato e assumendo la condizione di servo, … si è umiliato facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Ma dal Padre egli è stato esaltato e ha ricevuto un nome davanti al quale ogni ginocchio deve piegarsi e ogni lingua deve proclamare che « Gesù Cristo è il Signore », a gloria di Dio Padre.
Così il cristiano è esortato da Paolo ad avere gli stessi sentimenti di Cristo per proseguire il suo spirito e il suo metodo, portando la croce insieme a lui, perché solo così si potrà giungere alla sua stessa gloria.
Vangelo: Gv 3,13-17.
Giovanni nel suo Vangelo fa risaltare fortemente il parallelo tra il serpente elevato da Mosè e Cristo, il Figlio dell’uomo innalzato sul legno della croce, da cui attira tutti a sé con il suo abbraccio misericordioso. Ma è necessario avere fede in lui, Dio crocifisso, se si vuole avere la vita eterna. Solo credendo, dice Gesù a Nicodemo, che il Padre, nel suo grande amore per gli uomini, ha mandato il suo Figlio unigenito e, se si crede in lui, si può avere la vita eterna.
Il Figlio infatti è stato mandato dal Padre nel mondo perché questi sia salvato.
La correzione fraterna nella Chiesa.
7 SETTEMBRE – XXIII Domenica del Tempo Ordinario.
La correzione fraterna nella Chiesa.
Nel giorno del Signore, il Padre celeste ci invita al convito eucaristico e ci fa dono del suo Figlio, come « Parola » e « Pane di vita ». Gesù, la sapienza incarnata, è la Parola che in tutta la Scrittura Dio ci rivolge, per guidarci nelle scelte quotidiane della vita e così adempiere alla sua volontà, e il Pane di vita, che ci nutre e ci santifica con la sua presenza sacramentale.
Per questi doni, per tutto quello che ha compiuto per mezzo del suo Figlio e per tutti gli altri doni , ricevuti dalla Paternità di Dio, è « cosa buona e giusta », diciamo nella preghiera del Prefazio, rendere grazie a Dio e rendergli la nostra lode, la nostra adorazione in quanto figli adottivi, partecipi, in quanto membra di Cristo, della sua stessa eredità. Questa realtà di partecipazione al banchetto deve essere vissuta non tanto individualmente ma come comunità di fratelli, riuniti attorno a Cristo, nostro capo e Signore, affinché, diciamo nella colletta, « a tutti i credenti in Cristo sia data la vera libertà e l’eredità eterna ».
Il cammino del cristiano è sì un itinerario individuale di santità, ma inserito in un contesto di vita comunitaria, aperto all’more verso i fratelli.
L’amore che riceviamo da Dio in Cristo suo Figlio deve, come dice san Giovanni, essere vissuto amando i fratelli, perché non possiamo amare Dio che non vediamo se non amiamo i fratelli che vediamo.
Prima Lettura: Ez 33,1.7-9.
Il profeta, come sentinella, è portatore non di una sua parola, ma di quella di Dio, ed è tenuto ad annunziarla con fedeltà e integralmente. Così ognuno di quelli a cui si rivolge, posto davanti alla Parola, con il proprio senso di responsabilità, deve ascoltarla e compiere un cammino di conversione al Signore. Se l’empio, a cui Dio rivolge l’invito alla conversione attraverso l profeta, non viene da questi ammonito, per cui il malvagio non desiste dalla sua condotta perversa, allora la responsabilità « della morte del peccatore » ricade sul profeta. Se invece il profeta, adempiendo la sua missione, avrà ammonito l’empio a cambiare vita e questi non si converte, egli morirà per la sua iniquità, ma al profeta non sarà addebitata nessuna responsabilità.
Tutti noi, in merito alla nostra partecipazione battesimale alla realtà profetica di Cristo, siamo chiamati a dare testimonianza del bene a tutti, anche davanti a coloro che operano iniquamente, ricordando che è opera di carità spirituale « ammonire i peccatori e pregare per loro », anche se questo deve essere fatto con carità, nella fraternità, con discrezione e senza superbia.
Seconda Lettura: Rm 13,8-10.
L’osservanza del comandamenti, « Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai » e qualsiasi altro comandamento, sono compendiati in quello dell’ « Amare il prossimo tuo come te stesso », dice san Paolo, cioè nella carità che non fa male al prossimo e che è pienezza della Legge.
Tutti i comandamenti sono, allora, espressione dell’amore verso tutti gli uomini, che dobbiamo amare come fratelli, nella varie circostanze di relazione che poniamo tra noi e loro. Solo di questo amore che dobbiamo agli altri, dice ancora san Paolo, siamo debitori nei loro confronti. Di nulla altro.
Vangelo: 18,15-20.
In questo brano del Vangelo vengono dati degli insegnamenti che riguardano le relazioni tra i membri di una comunità, sia a livello privato, come anche quelle riguardanti atteggiamenti che possono arrecare scandalo nei fratelli, per cui tutta quanta la comunità ne è coinvolta, perché ne va
di mezzo la testimonianza del vangelo, che non è reso più facilmente credibile, e perchè viene meno anche la missione profetica della Chiesa.
La correzione fraterna, a cui siamo esortati da Gesù, deve, come abbiamo accennato nella prima lettura, essere considerata come un dovere fraterno ed essere vissuta con lo stile di Cristo, con la progressività di gesti che ricalcano lo stesso stile dell’agire della santità di Dio: la sua misericordia, illimitata e incondizionata. Così volendo imitare l’amore di Dio per noi, dobbiamo assumere come norma la necessità dell’amore per il fratello, operando nella correzione fraterna, per amore e con discrezione, con umiltà e con il desiderio di volere il bene del fratello, senza la presunzione di voler essere giudici.
Come diceva Dio ad Ezechiele che è costituito sentinella, tutti, come Chiesa, siamo chiamati ad essere “sentinelle”, vegliando per la sicurezza di tutti, vigilando affinché non ci sia distanza fra la vita dei fratelli di fede e la Parola di Dio, che indica la via da percorrere.
Davanti al dilagare del male tutti siamo coinvolti e dobbiamo esortarci a non lasciarci coinvolgere facilmente da esso. E’ allora che tutta quanta la Chiesa è coinvolta al comando di Gesù del « legare e sciogliere » in riferimento alle questioni importanti della vita spirituale e morale della testeimonianza cristiana. E’ questo un dovere che scaturisce dalla necessità di avere cura reciproca derivante dal vivere la fraternità nella comunità, compito che, ripetiamo, deve essere vissuto secondo le caratteristiche sopra accennate, tenendo sempre presente il bene del fratello e della comunità tutta. Vengono così ricostruiti quei legami ecclesiali, interrotti per atteggiamenti e comportamenti poco conformi alla Parola di Dio, tenendo sempre viva la fedeltà agli insegnamenti evangelici.
E' soprattutto nel Sacramento della Riconciliazione, attuando il comando di Gesù agli Apostoli la sera del giorno della risurrezione: « A chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimettere resteranno non rimessi », che la Chiesa, a nome di Cristo che ha dato lo Spirito Santo, assolve al compito della riconciliazione dei peccatori, pur condannando i peccati e l’ostinazione che si può avere nei confronti di essi.
L’ostinazione nel male del fratello può, in casi estremi, giungere anche a considerarlo non più nella comunione ecclesiale, ma ciò non toglie, come scriveva sant’Agostino, di doversi prendere cura del peccatore, che non vuole considerarsi nostro fratello, e reiterare l’invito alla conversione. Pur riconoscendo e accettando la libertà personale del fratello, anche quando si opera un taglio con la comunità, ciò non toglie la necessità di pregare per lui e invitarlo a ritornare sui suoi passi, affidando solo a Dio il giudizio finale sul suo comportamento.
Seguire Cristo sulla via della croce è perdere la propria vita per ritrovarla nella risurrezione
31 AGOSTO – XXII DOMENICA del Tempo Ordinario.
Morire con Cristo, per risorgere con lui.
Il Signore Dio ci convoca nel giorno del memoriale della sua Pasqua. Egli ci parla con la sua Parola raccontandoci le sue meraviglie e in noi avvertiamo l’istanza, giusta e doverosa, di rendergli la lode e il nostro inno di ringraziamento, non solo con le parole ma soprattutto con la nostra vita.
In questo memoriale, il Padre celeste ci offre il suo Figlio come cibo e bevanda di salvezza. Rafforzati da questo sacramento, in cui sperimentiamo il grande amore con cui siamo stati amati, riceviamo la grazia per non lasciarci « deviare dalle seduzioni del mondo », per « discernere ciò che è buono e a lui gradito », per rispondere all’ amore del Padre con la nostra fedeltà di figli, all’amore di Cristo come discepoli, portando la propria croce dietro a lui sulle sue orme, e per porre, infine, la nostra vita al servizio dei fratelli, perché l’amore del Maestro si manifesti in modo genuino e sincero con le nostre opere nella fraternità.
Prima Lettura: Ger 20,7-9.
Geremia è avversato nella sua missione profetica, tanto da volersi defilare da questo compito, perché è fatto oggetto, ogni giorno, di scherno, di derisione e di obbrobrio da parte di coloro che non condividono il messaggio che egli annunzia. Egli, per farsi sentire, poiché non è ascoltato, deve gridare, urlare: « Violenza! Oppressione! ». Per questo pensa di non voler più parlare nel nome di Dio. Ma nel suo intimo egli avverte come un « un fuoco ardente, trattenuto nelle sue ossa », si sforza di contenerlo , ma non può, perché lo spinge a continuare la missione del Signore, che lo ha « sedotto » e il profeta si « è lasciato sedurre »: su di lui il Signore ha fatto violenza ed è prevalso. Ormai, quindi, la sua esistenza è tutta presa ed è inconcepibile se non nello svolgere fino in fondo la missione del Signore. Oltre che per Geremia, anche per ognuno di noi la vocazione cristiana, cioè corrispondere all’appello di Dio e dedicarsi fedelmente a Cristo, è un’avventura che, come per i santi, ci coinvolge nella profondità della nostra esistenza.
Avere sete di Dio, cercarlo, contemplarlo nel suo santuario, ammirare la sua potenza e la sua gloria, vivere dell’amore di Dio vale più della propria vita, ci fa cantare il Salmo responsoriale di oggi.
Seconda Lettura: Rm 12,1-2.
Ogni celebrazione liturgica, specie quella del sacrificio di Cristo, deve essere seguita da una vita coerente all’esempio del Signore. Paolo esorta i cristiani ad offrire se stessi, in tutta la loro realtà, in sacrificio vivente a Dio, perché è una continuazione di quello della croce del Signore: culto spirituale offerto attraverso le opere che si compiono animati dallo Spirito di Dio. Tutta l’esi-stenza cristiana, allora, se vissuta in conformità alla volontà di Dio, come quella di Gesù, nel rinnovamento del proprio modo di pensare, discernendo ciò che è buono, a lui gradito e perfetto, può essere offerta a Dio.
Vivendo così la liturgia, cioè inverandola nella vita, possiamo dire di vivere in profondità la nostra fede.
Vangelo: Mt 16,21-27.
La prospettiva della croce, che il Signore annunzia agli apostoli, appare un qualcosa di insopportabile a Pietro, che reagisce rimproverando Gesù dicendogli: « Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai ». E Gesù voltandosi verso di lui lo apostrofa decisamente: « Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini ». Così il disegno di Dio, per quanto strano possa sembrare, non può essere eluso e coloro che vi si oppongono e convincono altri a non viverlo sono tacciati come Satana, che svolge il compito precisamente di intralciare il procedimento e l’attuazione della volontà di Dio.
Seguire il Signore portando ognuno dietro a lui la propria croce è il destino di ogni uomo che vuole essere suo discepolo. Perdere la propria vita e donarla con Cristo non significa perderla ma ritrovarla nella sua pienezza, non significa rinnegarla, ma realizzare il più grande guadagno, perché solo morendo come Cristo, il seme porta frutto, e la prospettiva della risurrezione è la vera ricompensa che il Signore darà a chi è disposto a perdere la propria vita per lui e per il suo regno.