Solennità del Corpo e Sangue di Gesù.
22 Giugno – Solennità del Corpo e Sangue di Gesù.
Nella sua fedeltà il Signore, dopo aver liberato il popolo d’ Israele dall' Egitto, averlo condotto lungo il deserto, accudito, nutrito, non è venuto meno alla volontà salvifica a favore dell’uomo, pienamente manifestata in Gesù Cristo che, con il suo Corpo e il suo Sangue, nutre i credenti, realizzando un tangibile legame d’amore tra questi e il Padre.
La Chiesa del Signore, come comunità, non può dimenticare la sua dimensione comunitaria, in cui la fede è vissuta e celebrata, specie nella Eucaristia, che è il « memoriale della Pasqua » del Signore Gesù, morto e risorto. Memoriale vuol dire non un semplice ricordo ma una presenza reale del Corpo e del Sangue del Signore. Celebrando l’Eucaristia noi offriamo il sacrificio della nuova alleanza, ripresentiamo l’immolazione della croce, dove Gesù s’è offerto, Agnello senza macchia. L’altare è anche la mensa della sua cena: vi attingiamo il cibo per il « viaggio della nostra vita », in attesa di essere ammessi al convito del regno eterno.
All’ altare ci riconosciamo fratelli, uniti in « assemblea festosa » a rendere grazie a Dio, che nel sangue di Cristo ci ha creato come suo popolo, legato nella medesima fede e dall’ identica unità e carità, rappresentate nell’ unico pane e nell’ unico calice. Nell’ Eucaristia riceviamo lo Spirito che scaturisce dal Corpo di Cristo e la purificazione di ogni colpa.
Tutto questo deve farci fugare i rischi di considerare la comunità in termini psicologici, o ridurla come gruppo aggregato con dimensione solo affettiva o emotiva, per colmare situazioni compensatorie nelle proprie fragilità: una tale comunità rischierebbe di produrre un gruppo di immaturi che cercano un ovattamento alla vita; oppure percepire la comunità in termini sociologici, perché l’affermazione conciliare sulla Chiesa, come « popolo di Dio », è da intendersi in maniera teologica non sociologica, costituita con votazioni o referendum: esso è l’insieme di coloro che credono, celebrano e praticano la fede cristiana, pur con le loro fragilità.
Infine bisogna evitare un ultimo rischio che è quello di considerare la Comunità come aggregazione per eventi o iniziative di tipo organizzativo, con poco dispendio di energie e con scarsa intensità di comunione spirituale.
Non si può parlare di comunità senza parlare di « comunione », come relazione spirituale e di amore fraterno, che lega sia i presenti come anche coloro che per motivi svariati non possono essere presenti. La comunione trova il suo fondamento nella relazione che ognuno ha con Cristo, e solo questo fa la comunità cristiana. Vi sono infatti tante forme di comunità, ma solo la prerogativa testé esposta realizza una « comunità cristiana ».
L’Eucaristia che rimane dopo la celebrazione della Messa è presenza reale di Cristo, che avvera la promessa di Gesù di non lasciare più la sua Chiesa. Al Cristo del tabernacolo va la nostra adorazione e il nostro culto.
Prima Lettura: Dt 8,2-3. 14-16.
Nell’ arduo cammino del deserto, Dio non ha lasciato mancare al suo popolo il nutrimento. Provato dalla fame, quel popolo fu sostenuto da un cibo singolare, la manna, segno della provvidenza potente e amorosa di Dio.
Così come fu provvidenziale l’acqua straordinariamente sgorgata dalla roccia arida e dura. Veramente Dio non abbandona mai nessun uomo, fosse il più umile e piccolo. In particolare è vicino alla sua Chiesa con la provvidenza dell’Eucaristia.
Seconda Lettura: 1 Cor 10,16-17.
Prendendo parte al calice entriamo in comunione con il Sangue di Cristo; e spezzando e mangiando il pane eucaristico assumiamo il Corpo reale di Gesù. Dunque non si tratta di puri simboli, che accennano da lontano a Gesù: « L’Eucaristia è il Signore, che dona la sua vita per noi; in essa noi lo riceviamo veramente ». Ma l’Apostolo Paolo mette in particolare in luce una conseguenza: se unico è il pane che spezziamo, se unico, quindi, è il Corpo di Gesù, allora noi siamo intimamente uniti, gli uni agli altri.
Siamo molti: ognuno con la propria personalità, la propria fisionomia esteriore e interiore, la propria storia e il proprio temperamento, e tuttavia formiamo come un solo corpo. Non siamo reciprocamente estranei, ma intimamente uniti. Per questo ci dobbiamo amare. E’ il frutto e l’impegno dell’Eucaristia.
Vangelo: Gv 6,51-58.
La comunità del Signore si caratterizza per la comunione che i credenti in lui pongono attorno alla sua presenza, reale e non simbolica, nell’Eucaristia. Le sue parole, come leggiamo nel Vangelo di questa solennità: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui », ci dicono che l’assimilazione della carne e del sangue di Cristo, rendono presente Gesù nel credente e viceversa. Certo le parole “mangiare ” e “ bere ” non sono da intendersi in senso naturalistico, ma vanno intese in senso sacramentale, in quanto mangiare il pane e bere il vino, che per la potenza dello Spirito di Dio, sono trasformati nel Corpo e Sangue di Cristo, rendono presente in noi il Cristo-Dio, e sono “ segni efficaci ”, che compiono ciò che dicono. La partecipazione a questi segni sacramentali è partecipazione da parte nostra agli effetti della passione e al dono della pienezza della vita che Gesù ci comunica.
Adesso il pane che ci nutre, come credenti e come figli di Dio, è la carne, quindi la persona, di Cristo, il quale si offre per noi. Entriamo infatti in profonda comunione con il Corpo e il Sangue di Gesù. Solo così abbiamo la vita, quella vera, che non si logora e che non è destinata ad esaurirsi e a spegnersi. L’Eucaristia ci dona la vita stessa del Padre e del Figlio, Gesù. Grazie all’ Eucaristia e alla vita che in essa riceviamo, a differenza degli antichi ebrei, saremo sottratti all’ esperienza della morte, perché, sostenuti da questo nutrimento lungo il cammino terreno, possiamo giungere alla “ terra promessa ” del Regno celeste. Nell’ Eucaristia già riceviamo il germe della risurrezione e conformazione al Signore che ha vinto la morte. Concludendo, solo dalla comunione con Cristo viene la vera comunione nella comunità che le permette di essere, nell’ og- gi, profezia e annunzio del Regno futuro. Tutto il resto può rendere visibile la comunione nella comunità, ma se manca il centro, cioè Cristo, la Chiesa fallisce lo scopo per cui il Signore l’ha posto nel mondo.
Solennità della Santissima Trinità: Dio incontra l'uomo.
15 Giugno – Solennità della SANTISSIMA TRINITA’
Quello della SS. Trinità è il primo mistero principale della fede cristiana, rivelatoci da Dio. Noi professiamo la fede in un Dio uno e unico, in Tre Persone uguali e distinte, ma non separate. La Teologia cristiana, accogliendo la rivelazione che Dio ha fatto, ha cercato lungo i secoli di indagarne il mistero usando le categorie epistemologiche-conoscitive di ogni epoca, pur sapendo che, come scrive san Agostino nel libro "De Trinitate", vedendo sulla spiaggia del mare di Tegaste un bambino che con un cucchiaio tenta di svuotare il mare trasportandone l’ acqua in una buca, un mistero così grande non può essere pienamente compreso da una mente umana finita e limitata, nel senso di una limitatezza come coscienza delle proprie possibilità e impossibilità.
Alla Santissima Trinità – al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo – è sempre rivolta la nostra preghiera e il nostro rendimento di grazie. Non si tratta di un mistero astratto e lontano. Al contrario: ne possiamo parlare, e vi dedichiamo una festa tutta particolare, proprio perché questo mistero si è fatto vicino. E’ un mistero di relazione, di amore, comunione e intimità fra le tre Persone. La SS. Trinità è un Dio che costantemente si dona all’ uomo rendendolo partecipe di questa relazione, fino al punto di comunicarsi a lui. Il mistero di Dio si è aperto quando ci è stato inviato come nostro redentore Gesù, il Figlio stesso di Dio e quando ci è stato elargito « lo Spirito Santo d’amore », che ci ha riconciliato e santificato. Allora ci è stato rivelato « il mistero della vita di Dio ». La Trinità Santissima se sfugge alla nostra comprensione, tuttavia inabita in noi, è un’esperienza: un’esperienza ancora velata, ma « nella pazienza e nella speranza » siamo incamminati e tesi verso la « piena conoscenza » di Dio « amore e vita ».
Prima Lettura: Es 34,4-6.8-9
Il nostro Dio è un Dio per noi, per la nostra salvezza, Dio di misericordia, « ricco di amore ». Nella rivelazione che Dio fa di sé per la seconda volta a Mosè ridona le tavole della Legge, poiché una prima volta il popolo aveva deviato dalla fedeltà agli impegni dell’alleanza, quando si era dato all’ idolatria, prostrandosi in adorazione davanti al vitello d’oro, fatto da Aronne, e attribuendo ad esso l’opera della liberazione dall’ Egitto. Nonostante questa infedeltà, Dio, per intercessione di Mosè, perdona al suo popolo perché è « il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ ira e ricco di amore e di fedeltà » ( Es 34,6).
Ma Mosè sente Dio vicino e pieno di grazia, perché è un Dio che cammina in mezzo al suo popolo, che perdona le sue colpe,« anche se è di dura cervice ». Mosè davanti a Dio riconosce il peccato di tutto il popolo e chiede che lo scelga e lo tratti come suo possesso. Questa presenza divina raggiungerà la sua pienezza quando a camminare in mezzo a noi sarà lo stesso Figlio di Dio; quando all’ umanità, dal Padre e dal Figlio, sarà inviato come Dono lo Spirito Santo. Allora potremo capire la misura della pietà e della vicinanza di Dio: Trinità Santissima rivelata e comunicata agli uomini.
Seconda Lettura: 2 Cor 13,11-13
Nel saluto di Paolo – il saluto tipicamente cristiano – sono proclamate le Tre Persone divine della Santissima Trinità: il Signore Gesù, il Padre, lo Spirito Santo. Ma non come astratta enunciazione: del Figlio è ricordata la grazia che ci è elargita, del Padre è sottolineato l’amore, dello Spirito Santo la comunione. La Santissima Trinità si è dunque aperta nel suo mistero e si è trasmessa a noi con la venuta del Figlio, che ci ha redenti mediante il dono dello Spirito. Più che a riflettere per capire, siamo chiamati ad accogliere per amare, dal momento che le Tre Persone Santissime sono in viva relazione con noi, fino a dimorare nel cuore di chi è in grazia.
Vangelo: Gv 3,16-18.
Del dono di Dio all’ uomo ci parla Gesù nel suo colloquio con Nicodemo a cui svela il progetto di salvezza del Padre, che per sua iniziativa d’amore sovrabbondante, generoso e oblativo, manda il suo Figlio, consegnato per la salvezza del mondo. Questo mondo a volte si oppone a Dio, lo contrasta e rifiuta il suo amore, mentre altre volte, riconoscendo l’uomo il proprio stato di prostrazione, lo ricerca e si rivolge a lui. Nell’ insegnamento e nella rivelazione che Gesù fa di Dio il mondo è oggetto dell’amore di Dio che lo cerca e lo attira al suo amore.
Così abbiamo saputo di avere un Padre quando ci è stato inviato da Dio il Figlio Unigenito per la salvezza del mondo, la cui missione, frutto di questa iniziativa del Padre, è assunta e condivisa da Gesù perché potessimo avere la vita di Dio in noi. A questa iniziativa di Dio deve corrispondere da parte nostra l’accoglienza nella fede di questo Dono del Padre, nel quale riceviamo la salvezza; la fede nelle parole, nelle opere e nei gesti di Gesù; la fede come affidamento e fondamento della conoscenza del mistero di Dio. Il mistero del Padre e del Figlio appare così non come lontana e difficile verità, ma come partecipazione nostra alla vita di Dio. Né manca lo Spirito Santo, poiché la vita di Dio, portataci dal Figlio, viene in noi grazie allo Spirito Santo: e infatti noi nasciamo di nuovo, dall’ alto, per virtù dello Spirito, la Terza Persona della Santissima Trinità.
Lo Spirito vi renderà testomoni.
8 Giugno – Domenica di Pentecoste.
Lo Spirito vi renderà miei testimoni.
In questa solennità, che porta a compimento il mistero pasquale, per i credenti e per tutti coloro che lo accolgono, si realizza ciò che Gesù promise nell’ultima Cena, assicurandoci che non ci avrebbe lasciati soli, ma che avrebbe, salito al Padre, inviato Il Consolatore, lo Spirito di verità. Lo Spirito, in questa liturgia, ci invita a vedere l’opera di Dio nel mondo e ci illumina, esorta e ci da la forza di corrispondere al suo amore, portando ad una maggiore pienezza il cammino di fede. Questo giorno ricorda e attualizza, in ogni tempo e latitudine, la Pentecoste, il tempo nuovo della Chiesa, che accoglie lo Spirito e i suoi benefici effetti nella sua vita.
Così la Chiesa, corpo di Cristo, è sostenuta ed è fatta crescere dallo Spirito, meritato da Gesù in croce e inviato da lui risorto nel giorno di Pentecoste. Dove c’è lo Spirito là è presente il Signore e la comunità della nuova alleanza, a cui sono aggregati tutti i popoli; là è in atto il mistero pasquale. Come afferma il prefazio: « Oggi hai portato a compimento il mistero pasquale e su coloro che hai reso figli di adozione in Cristo tuo Figlio hai effuso lo Spirito Santo ». In ogni sacramento agisce lo Spirito Santo. Ma lo Spirito è destinato ad inabitare dentro di noi come alito di vita, a essere il suggerimento e l’impulso alle nostre azioni.
Dobbiamo essere accesi dal fuoco di questo Spirito, che si alimenta ad ogni comunione col Corpo e Sangue del Signore, e che si rivela nella « carità ardente » di cui parla l’orazione sulle offerte della Messa vespertina. E’ così che lo Spirito rinnova il prodigio dell’unità che raccoglie gli uomini dispersi e che trasforma qualitativamente le nostre azioni, facendotjci agire secondo la volontà di Dio. E’ allora che egli ci consola nell’intimo.
Quando si parla della vita « spirituale » si intende una vita che abbia come maestro e come suggeritore lo Spirito Santo, che ridesterà i nostri corpi per la risurrezione. Non è una cosa complicata o eccezionale lasciarci condurre da lui. Dev’essere il fatto semplice e sereno – e pure tanto straordinario – di ogni giorno.
Ancora. Il significato dell’evento di Pentecoste è riassunto dalla colletta della Messa:« O Padre, che nel mistero della Pentecoste santifichi la tua Chiesa in ogni popolo e nazione, diffondi sino ai confini della terra i doni dello Spirito Santo ». E’ lo Spirito Santo che anima la comunità cristiana, che porta e rende efficace il Vangelo di Gesù Cristo, che ci inizia alla conoscenza del suo mistero. E’ lo Spirito che ci fa crescere nelle opere di giustizia , quelle che si compiono per la sua ispirazione ed energia dopo che ci ha rinnovato il cuore e lo ha reso giusto. La solennità di oggi – che conclude quel lungo e meraviglioso tempo pasquale che ci ha intrattenuto a meditare ed approfondire il mistero della morte e risurrezione del Signore – ci offre la prospettiva secondo la quale ormai dobbiamo vivere, ogni giorno dell’anno liturgico, l’impronta della morte e risurrezione del Signore, della vita nuova sorta dallo Spirito che ci conduce, ci fa agire e ci prepara alla conformità con il Signore risorto.
Prima Lettura: At 2,1-11.
I discepoli di Gesù sono stati obbedienti. Hanno atteso lo Spirito Santo promesso, che appare nel segno del fuoco e della parola: « apparvero lingue come di fuoco ». Venuto lo Spirito incomincia l’evangelizzazione , l'annunzio delle « grandi opere di Dio », che si riassumono nell’avvenimento della morte e della risurrezione di Gesù. Ciò che sorprende è che ognuno sente la gioiosa proclamazione nella propria lingua, pur essendo dei Galilei a parlare. L’insolenza della torre di Babele e il castigo della confusione sono vinti con la proclamazione del Vangelo. La fede, pur volgendosi a popoli, lingue, tradizioni diverse, crea l’unità, perché tutti sono chiamati a diventare figli di Dio. E’ il tema del prefazio: « la confusione che la superbia aveva portato tra gli uomini è ricomposta in unità dallo Spirito Santo ». Esaminiamoci se siamo cooperatori di unità o se invece fomentiamo la discordia; se, rompendo il cerchio che ci chiude in noi stessi, sappiamo uscire verso gli altri e quindi creare comunione.
Seconda Lettura: 1 Cor 12,3-7.12-13.
San Paolo descrive quali sono le funzioni dello Spirito Santo. La prima, e fondamentale, è che, sotto la sua azione, noi possiamo riconoscere che Gesù di Nazaret è il Signore, il Figlio di Dio risorto e glorioso. Lo Spirito Santo ci disvela l’intimo mistero di Cristo. Dall’unico Spirito poi derivano i vari carismi, i diversi doni della Chiesa: diversi come espressione ma tutti aventi, con la stessa origine, l’identico fine di edificare la comunità cristiana. L’apostolo quindi offre alla Chiesa i criteri per riconoscerli in ogni situazione: nessuno li possiede tutti, ma ciascuno ne possiede qualcuno. Il criterio più importante è che sono doni dati non perché servano alla nostra vanagloria, ma al « bene comune »: se edificano e fanno crescere la comunità sono dallo Spirito, come avviene delle diverse membra del corpo, con le svariate funzioni, tutte destinate al benessere del corpo; se invece dividono, frazionano, creano partiti e gruppi di pressione, se smembrano la comunità, non sono dallo Spirito. Non bisogna farsi affascinare troppo dai carismi più evidenti, perché possono esserci carismi grandi e importanti nell’ordinarietà della vita e che spesso vengono sottovalutati. Determinante è quello della fede: « nessuno può dire: “ Gesù è il Signore ”, se non sotto l’azione dello Spirito »( 1 Cor 12,3).
Con il Battesimo nell’identico Spirito formiamo « un corpo solo », dove le distinzioni sono secondarie.
Questa considerazione di san Paolo ci spinge a collaborare con generosità e con gratuità nella comunità cui apparteniamo, non guardando all’interesse o al ricavo personale come unico scopo del nostro lavoro; a mettere volentieri in comune i doni che Dio ci ha fatto; e a far contenti gli altri. Sono infiniti i modi con cui possiamo vivere la dimensione comunitaria della fede e della esperienza cristiana.
Vangelo: Gv 20,19-23.
Secondo Giovanni la stessa sera di Pasqua Gesù risorto effonde sui discepoli lo Spirito Santo. Ormai Gesù era stato glorificato, e quindi aveva il potere di effondere il Dono di Dio per eccellenza, il « primo Dono » ai credenti.
Questa effusione pasquale dello Spirito sugli apostoli e il racconto della Pentecoste, pur essendo episodi diversi, realizzano la promessa fatta da Gesù nella Cena: di non lasciarli orfani e di inviare lo Spirito. E se l’episodio pasquale, a porte chiese, vuole, con il dono dello Spirito, far allontanare dagli apostoli la paura e l’incredulità, assicurando loro la presenza costante di Gesù nella loro vita e in quella della comunità, la Pentecoste, rende presente il Dono per tutti gli uomini, che così potranno essere radunati da ogni parte del mondo in unità, esprimendo la molteplicità dei linguaggi con cui sarebbe stato annunciato e testimoniato il Vangelo della salvezza universale, operata da Gesù e attuata, per il ministero della Chiesa, dallo Spirito del Signore.
Gesù, con il dono della pace pasquale, augurata ai discepoli mostrando le sue piaghe, vuole mostrare che la via della passione, assunzione del male che affligge l’uomo, e della risurrezione, sconfitta totale e definitiva di esso, è il percorso che deve essere seguito per conseguire la pace vera, quella che solo lui può dare e non come la dà il mondo.
Augurando per la seconda volta la pace ed effondendo lo Spirito, Gesù vuole consegnare alla Chiesa il principio per la remissione dei peccati: come conseguenza della sua vittoria sul male, donare la pienezza di ogni benedizione divina e il potere di perdonare i peccati, perché il male, i conflitti e le tribolazioni non possono rendere inefficace la salvezza, che è dono e nella quale riposa la speranza cristiana. La Chiesa, quindi, è servizio dello Spirito per il perdono. Potrà anche non rimettere i peccati, quando manchi la conversione del cuore, senza della quale la porta allo Spirito rimane chiusa.
Gesù, soffiando lo Spirito e richiamando l’azione creativa di Dio della Genesi, instaura nei discepoli e nel mondo una nuova creazione, inaugurata dalla sua risurrezione, di cui godono e fanno parte per grazia tutti coloro che credono. Con lo Spirito donato inizia, come continuazione della sua, anche la missione della Chiesa, che si esplica nell’annunzio del perdono di cui ha fatto esperienza. Questa missione inizia con la Pentecoste, nuova effusione dello Spirito, quando gli apostoli parlano varie lingue e tutti i presenti odono e comprendono il messaggio da loro annunziato: unico e uguale nei secoli ma esprimibile in modo che possano comprenderlo, perché destinato a tutti, anche se ognuno dovrà sentirselo dire in modo a lui comprensibile. Spetta poi agli evangelizzatori essere creativi ed esprimerlo con modi e formule adeguate ai tempi.
Molti sono i modi con cui possiamo invocare e ricevere lo Spirito del Signore, ma dall’Eucaristia – sacramento del Corpo di Cristo – continua in particolare a esserci dato lo Spirito di Gesù. Nell’orazione dopo la comunione chiederemo: « la partecipazione alla tua mensa, o Padre, ci comunichi il fervore dello Spirito ». Del resto è lo Spirito Santo che rende presente Gesù Cristo nell’Eucaristia.
Ultimo aggiornamento (Sabato 07 Giugno 2014 17:31)
Ascensione del Signore.
1 GIUGNO – VII Domenica di PASQUA
ASCENSIONE DEL SIGNORE
Gesù, « vincitore della peccato e della morte, ci ha preceduti nella dimora eterna, per darci la serena speranza che dove è lui, capo e primogenito, saremo anche noi sue membra, uniti nella stessa gloria »: è quello che canta oggi il primo prefazio con tanta solennità, ma che dobbiamo tener presente in ogni giorno della vita. Nell’umanità di Gesù presso il Padre siamo già in qualche modo presenti anche noi, proprio perché egli è il Capo del corpo che siamo noi. Speriamo la salvezza e la gloria eterna perché egli l’ha acquistata per sé e per noi. Non siamo lasciati alla nostra povertà – dice ancora il prefazio -: adesso ci è donata la grazia di Cristo che attende di maturare nella sua stessa gloria. Da lui che è il Mediatore siamo già legati con Dio.
Ma se lungo il cammino terreno siamo presi dal dubbio e ci sentiamo smarriti nella ordinarietà e monotonia della nostra vita e di quella della Chiesa, non dobbiamo, però, credere che egli ci abbia abbandonato, perché la sua presenza, resa costante dallo Spirito inviato, ci accompagna nella missione nel mondo e ci fa attendere con fiducia e operosità il sua ritorno futuro, come dicono gli angeli nel momento in cui sale verso il cielo. Operosità vuol dire impegno a vivere in maniera degna di essere accolti nella sua gioia di Signore risorto.
Prima Lettura: At 1,1-11.
Dopo che nei discepoli ha preso sicura consistenza la certezza della risurrezione di Gesù, di cui avevano dubitato in varie occasioni, e davanti al quale, dice Matteo, « quando essi lo videro, si prostrarono », egli sale al cielo. Non è un abbandono e una lontananza: dalla destra del Padre Cristo invia lo Spirito, perché i fedeli, ricevendolo in pienezza, siano fortificati per la testimonianza che devono rendere al Risorto. E’ lo stesso Spirito che accompagna i discepoli nella loro missione. Essi infatti non devono rimanere inattivi aspettando la venuta gloriosa di Gesù. Non devono preoccuparsi di quando sarà la fine del mondo e il termine della storia. Sicuramente il Maestro tornerà. Durante poi questo tempo di attesa, la testimonianza si manifesta specialmente nelle opere della fede e della carità, che esprimono il desiderio di riunirsi al Signore.
Se da una parte la comunità del Signore sempre lungo la sua storia, come lo fu dall’inizio, può sperimentare momenti e fatti che non l’hanno resa splendida Sposa di Cristo, dall'altra ha anche molte pagine di testimonianza discreta e, oggi, con frequenza, eroica di tanti martiri. D’altronde Gesù stesso lo aveva detto: « Sarete perseguitati, ma riceverete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra » (At 1,8-9). Così la Chiesa, pur fragile e ferita, può continuare a dare speranza agli uomini e ognuno trovare il proprio spazio di crescita umana e spirituale, poiché non è fatta di puri, ma è costituita come comunità, che nel nome del Signore accoglie i peccatori, i quali, pur zoppicando, si sforzano di imitarlo.
Seconda Lettura: Ef 1, 17-23.
I cristiani aspettano tutti un’eredità, anche i più poveri ai quali non sia mai avvenuto di ereditare. E’ il tesoro della gloria che riceveranno con tutti i santi e che sarà donata in Gesù Signore risorto e glorioso. Il destino di Cristo è ormai il nostro destino: egli è il capo della Chiesa e noi ne siamo il corpo. Domandiamo per noi quanto san Paolo chiedeva per la sua comunità: « uno spirito di sapienza per una più profonda conoscenza del Dio del Signore nostro Gesù Cristo »; domandiamo di avere gli « occhi del cuore » per comprendere la nostra speranza. Fin che non raggiungiamo questo livello, ogni notizia sul mondo, sulle cose, sulla storia ci serve a poco. Chi invece ha capito Gesù ha acquistato la vera scienza. Capire però qui indica prender parte, assaporare, gustare e vivere. A questo punto tutto il resto acquista una proporzione nuova e diversa. Disponiamo di un criterio per valutare veramente le cose, per superarle e disincantarle. E’ il criterio del distacco che hanno i santi, il cui desiderio supremo è il Signore.
Vangelo: Mt 28, 16-20.
La Chiesa, comunità di santi e di peccatori, in obbedienza al comando di Gesù (Mt28,10), convocata da lui che l’ha beneficiato della rivelazione di sé nel suo corpo glorioso e investita di una dignità altissima, intraprende fin dal tempo apostolico la missione di testimoniare e realizzare, non a proprio nome, ma a nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, l’opera salvatrice dell’umanità da lui iniziata. Sono le Tre Persone della Santissima Trinità che danno valore alla predicazione, ai sacramenti e al ministero.
Immediatamente, poi, la missione esprime il potere di Gesù risorto: è lui che invia e rende efficaci gli atti di quelli che sono mandati. E’ lui che è presente perché la sua opera si estenda al mondo. L’ascensione non ci toglie Gesù, al contrario lo ravvicina a ogni tempo e a ogni spazio, perché con lui si stabilisca il rapporto di salvezza. Le sue ultime parole ci sono motivo di conforto e di speranza: « Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo ». Nessun momento più è vuoto e privo della presenza del Signore. Da qui l’orazione come colloquio ed esperienza personale di Cristo. Il vertice di questa presenza e di questa comunione si trova nell’Eucaristia. In essa la relazione con Gesù asceso al cielo raggiunge il suo momento più perfetto. Ma dove c’è Gesù Cristo là c’è il Padre, c’è il cielo. Allora non è fuor di luogo dire che l’Eucaristia è già, in anticipo la Vita eterna.
Dai «Discorsi» di san Leone Magno, papa
(Disc. 2 sull’Ascensione 1, 4; PL 54, 397-399)
L’Ascensione del Signore accresce la nostra fede
Nella festa di Pasqua la risurrezione del Signore è stata per noi motivo di grande letizia. Così ora è causa di ineffabile gioia la sua ascensione al cielo. Oggi infatti ricordiamo e cele- briamo il giorno in cui la nostra povera natura è stata elevata in Cristo fino al trono di Dio Padre, al di sopra di tutte le milizie celesti, sopra tutte le gerarchie angeliche, sopra l’altezza di tutte le potestà. L’intera esistenza cristiana si fonda e si eleva su un’arcana serie di azioni divine per le quali l’amore di Dio rivela maggiormente tutti i suoi prodigi. Pur trattandosi di misteri che trascendono la percezione umana e che ispirano un profondo timore riverenziale, non per questo vien meno la fede, vacilla la speranza e si raffredda la carità.
Credere senza esitare a ciò che sfugge alla vista materiale e fissare il desiderio là dove non si può arrivare con lo sguardo, è forza di cuori veramente grandi e luce di anime salde. Del resto, come potrebbe nascere nei nostri cuori la carità, o come potrebbe l’uomo essere giustificato per mezzo della fede, se il mondo della salvezza dovesse consistere solo in quelle cose che cadono sotto i nostri sensi?
Perciò quello che era visibile del nostro Redentore è passato nei riti sacramentali. Perché poi la fede risultasse più autentica e ferma, alla osservazione diretta è succeduto il magistero, la cui autorità avrebbero ormai seguito i cuori dei fedeli, rischiarati dalla luce superna.
Questa fede si accrebbe con l’ascensione del Signore e fu resa ancor più salda dal dono dello Spirito Santo. Non riuscirono ad eliminarla con il loro spavento né le catene, né il carcere, né l’esilio, né la fame o il fuoco, né i morsi delle fiere, né i supplizi più raffinati, escogitati dalla crudeltà dei persecutori. Per questa fede in ogni parte del mondo hanno combattuto fino a versare il sangue, non solo uomini, ma anche donne; non solo fanciulli, ma anche tenere fanciulle. Questa fede ha messo in fuga i demoni, ha vinto le malattie, ha risuscitato i morti.
Gli stessi santi apostoli, nonostante la conferma di numerosi miracoli e benché istruiti da tanti discorsi, si erano lasciati atterrire dalla tremenda passione del Signore e avevano accolto, non senza esitazione, la realtà della sua risurrezione. Però dopo seppero trarre tanto vantaggio dall’ascensione del Signore, da mutare in letizia tutto ciò che prima aveva causato loro timore. La loro anima era tutta rivolta a contemplare la divinità del Cristo, assiso alla destra del Padre. Non erano più impediti, per la presenza visibile del suo corpo, dal fissare lo sguar- do della mente nel Verbo, che, pur discendendo dal Padre, non l’aveva mai lasciato, e, pur risalendo al Padre, non si era allontanato dai discepoli.
Proprio allora, o dilettissimi, il Figlio dell’uomo si diede a conoscere nella maniera più sublime e più santa come Figlio di Dio, quando rientrò nella gloria della maestà del Padre, e cominciò in modo ineffabile a farsi più presente per la sua divinità, lui che, nella sua umanità visibile, si era fatto più distante da noi.
Allora la fede, più illuminata, fu in condizione di percepire in misura sempre maggiore l’identità del Figlio con il Padre, e cominciò a non aver più bisogno di toccare nel Cristo quella sostanza corporea, secondo la quale è inferiore al Padre. Infatti, pur rimanendo nel Cristo glorificato la natura del corpo, la fede dei credenti era condotta in quella sfera in cui avrebbe potuto toccare l’Unigenito uguale al Padre, non più per contatto fisico, ma per la contemplazione dello spirito.
chi ama Cristo è amato dal Padre.
25 MAGGIO – VI Domenica di Pasqua.
Chi ama Cristo è amato dal Padre.
La nostra fede spesso è vissuta nel timore che Dio ci punisca. Essere cristiano significa che Dio è premuroso verso di noi, si preoccupa e ci ama come un padre provvidente. Ha mandato il suo Figlio unigenito, Cristo Gesù, che è morto per noi, per liberarci dalla morte e ci assicura che, anche se non possiamo vederlo, toccarlo, egli non ci lascia soli, perché il suo Spirito ci accompagna sempre.
Tutto il tempo pasquale è pervaso di letizia. Essa però non scaturisce dal successo delle nostre imprese terrene, o perché i nostri giorni non conoscono motivi di ansia. E’ la letizia che viene dalla costatazione e dalla certezza che siamo stati liberati dalla vera causa della tristezza, il Peccato, e che il Signore risorto ci ha riportati ad una speranza che non conoscerà delusioni: la speranza della gloria eterna con lui.
Bisogna che torniamo spesso – e perciò è provvida la domenica – a tutto quello che Cristo ha fatto e insegnato: allora non si inaridirà la ragione della nostra gioia. C’è in particolare una strada che mette in fuga l’avvilimento: è quella di uscire da noi, sull’esempio di Gesù che per il primo ha dato la sua vita per gli altri. Carità e letizia sono strettamente congiunte.
Prima Lettura: At 8,5-8.14-17.
Pietro e Giovanni effondono con l’imposizione delle mani la pienezza dello Spirito Santo. E’ questo dono di Cristo che ci rinnova, che mette in fuga gli spiriti immondi. Il peccato lascia come una traccia della presenza del demonio ma i battezzati, per la loro fede e per i sacramenti, ne sono liberati. Questa novità deve manifestarsi nel comportamento, nel percorso della strada della giustizia, come diceva la prima preghiera di questa messa.
Seconda Lettura: 1 Pt 3,15-18.
La lettera di Pietro è ricca di insegnamenti preziosi. Eccoli: occorre adorare il Signore Gesù nei nostri cuori, coltivare l’amicizia con lui attraverso il colloquio della confidenza e dell’orazione. Un altro insegnamento: dobbiamo rendere ragione, dire i motivi per cui crediamo, e questo comporta anche un impegno a studiare il Vangelo e a comprenderlo. Dobbiamo essere non irriguardosi, prepotenti e irritanti, ma dolci, leali, rispettosi. Non meravigliamoci infine se dobbiamo patire qualcosa per la fede, come Gesù, del resto, che è morto per noi. Ed ecco un principio che deve esserci di guida nella nostra condotta: « Se questa è la volontà di Dio, è meglio soffrire operando il bene che facendo il male».
Vangelo: 14,15-21.
Gesù, in questo brano del Vangelo, mette in continua tensione l’attesa e il possesso, la promessa e la realizzazione. Ai discepoli, che si sentono abbandonati per aver detto che dove lui andava loro non potevano andare, Gesù li chiama “figlioli ”, promette di non abbandonarli per sempre e di pregare il Padre perché dia loro lo Spirito Paraclito. Se Giovanni scrive queste parole dette da Gesù nell’ultima Cena dopo l’evento della risurrezione, l’averlo rivisto risorto diventa il compimento del suo permanere tra loro e per noi credenti, il vederlo nella visione della fede, diventa l’attuazione, nel nostro oggi, della promessa della sua presenza costante: « … Non vi lascerò orfani: verrò di nuovo ».
Questa presenza istaura una comunione nell’intimo di ogni discepolo, perché Gesù dice: « Io sono nel Padre mio, e voi in me ed io in voi », dopo aver detto: « Io pregherò il Padre mio ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga sempre con voi » ( Gv 14,16). Così viene delineato il legame d’amore fra le Persone divine e il credente, legame esistenziale, concreto e pratico. La presenza della Trinità nella vita non è legata ad un luogo, il tempio, un luogo di culto, ma alla persona del credente.
Il tempo dello Spirito.
Il tempo che intercorre tra le parole dette di Gesù e il compimento delle sue promesse, il tempo della Chiesa e il nostro è animato dal suo Spirito, che realizza quelle promesse. Lo Spirito, che è Spirito di verità, ci fa comprendere la Parola di Gesù e ci dà la forza di testimoniarla, come avviene con la parola che predica Filippo presso i Samaritani, che credono e si convertono perché la testimonianza dell’apostolo rende credibile quella Parola. Ancora, in una comunità tribolata, come scrive san Pietro, lo Spirito anima la concretezza della vita cristiana: « E’ meglio soffrire operando il bene che facendo il male ». A sorreggere questa resistenza nel bene è la speranza che unisce, per mezzo della fede, a Cristo anche nei momenti delle tribolazioni. Questa testimonianza, tradotta in opere concrete, interroga anche i non credenti, a cui bisogna essere « sempre pronti a rispondere a chiunque vo domandi ragione della speranza che è in voi » ( Pt 3,15)
La presenza dello Spirito promesso è un dono che si riceve solo se il discepolo si decide ad accogliere l’invito di Gesù: « Se mi amate, osserverete i miei comandamenti … Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama » (Gv 14,15.21). Così l’amore non è un semplice sentimentalismo, perché si modella sul suo, poiché dice: « Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici » ( Gv 15,17).
Presso di noi, dunque, abita lo Spirito Santo, chiamato da Gesù il Paraclito, il consolatore, che porta la verità, che è Gesù stesso e il suo Vangelo. Ma il luogo dove lo Spirito abita è il cuore dei discepoli di Gesù, mediante la grazia. Gesù dice un’altra cosa nel brano che segue: « Non vi lascerò orfani ». E infatti lo Spirito Santo è il segno che Cristo è con noi e non ci abbandona a noi stessi, alla nostra solitudine. Poi ci sarà il suo ritorno glorioso, quando lo vedremo insieme col Padre. Sarà già il momento della morte, che allora non va aborrito, ma per questo motivo atteso con gioia, si direbbe perfino con impazienza. Però adesso si devono mettere in pratica i comandamenti di Gesù: « Chi li osserva, questi è colui che mi ama ». Ecco un principio fondamentale e chiarissimo. Le parole da sole non sono indice di amore.