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Il Signore semina la sua Parola
13 LUGLIO – XV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
L’uomo, creato da Dio a sua immagine e somiglianza, è stato dotato della libertà. Ma ci domandiamo: quale uso fa l’uomo della sua libertà nel suo rapporto con il Creatore? L’uomo può accogliere o rifiutare il dialogo e la parola con cui Dio lo interpella, anche se ciò è avvenuto attraverso il suo stesso Figlio, venuto tra noi. A seconda della disponibilità o indisponibilità dell’uomo, la Parola di Dio può portare il suo frutto nel cuore di chi l’accoglie: il seme è gettato, ma potrebbe andare disperso.
Nel Vangelo di oggi, la parabola del Buon Seminatore, se nella prima parte è messo in risalto il lavoro del seminatore, che sparge il seme, nella seconda parte viene sottolineato quale frutto matura nelle varie situazioni del terreno in cui il seme è sparso.
Tutti gli ascoltatori, a cui Gesù si rivolge annunziando la lieta novella del Regno, comprendono il significato della parabola, se agli apostoli Gesù ne spiega il significato? Secondo la profezia di Isaia, citata nel brano, coloro a cui Gesù si rivolge, udrebbero sì, ma non comprenderebbero, guarderebbero ma non vedrebbero a causa dell’insensibilità del loro cuore, della durezza dei loro orecchi, e della cecità dei loro occhi.
Gesù, che è il seminatore, nel narrare la parabola, ci permette di contemplarne il significato nella sua persona e nella predicazione che egli fa. Anche a noi Gesù ripete: « Chi ha orecchi, ascolti ». Cristo, nel nome del Padre, per sua libera iniziativa, semina la Parola del Regno che è dono elargito all’uomo, Parola rivolta a tutti senza distinzione di sorta.
Sembra, però, che l’opera della semina sia quasi fallimentare, se si pensa che solo nella quarta tipologia di terreno il seme porta frutto, mentre nelle altre tipologie il seme, pur spuntando, viene impedito nel suo sviluppo dalle situazioni del terreno e non per difetto del seme, che è sempre buono e capace di produrre.
Nei cuori degli uomini i quattro tipi di terreno non si trovano cosi nettamente connotati. Spesso il cuore di ognuno è un misto dei quattro tipi, o contemporaneamente o in tempi diversi. Fare in modo che il proprio cuore diventi terreno produttivo senza compromessi è il compito affidato a ciascuno, durante il cammino di purificazione lungo la propria esistenza. Siamo chiamati nel percorso della nostra vita spirituale ad evitare che il nostro cuore si indurisca, evitare che pur “sentendo non ascoltiamo, pur vedendo non vediamo e non comprendiamo”. E’ la lotta contro il Maligno che ruba la Parola; contro l’incostanza che non resiste alle tribolazioni; contro “le preoccupazioni del mondo e la seduzione della ricchezza”. Saremo allora produttivi se faremo, con la grazia di Dio e la forza dello Spirito, germogliare il seme che ci è stato donato e lo faremo fruttare nella vita di fede e nella vita di orazione, anche dopo una inesausta lotta contro tutto ciò che vi si oppone.
La profezia citata spiegherebbe la difficoltà che ha il seme di svilupparsi e portare frutto. Se il Regno di Dio non è accolto non è per una ristrettezza di Dio nell’annunziarlo, non è per una predestinazione divina alla dannazione. E’ per la indisponibilità dell’uomo all’ascolto. Dio per parte sua è magnanimo, anche nel rispettare la libertà dell’uomo. Ogni uomo è affidato alla propria libertà, alla propria responsabilità. Per esempio, i miracoli di Gesù, da parte dei sapienti e dei dotti, sono considerati eventi prodigiosi e non vengono accolti; per i “piccoli” sono eventi che aprono alla fede. Così vi sono alcuni che “guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono” (Mt 13,13).
Chi apre invece il cuore all’ascolto, allora la Parola porta frutto e rende “ beati gli occhi perché vedono e gli orecchi perché ascoltano e comprendono”.
Ascoltare e comprendere: sono i due atteggiamenti di chi porge orecchio attento, disponibile, libero e di conseguenza traduce in prassi di vita l’appello della Parola.
Ci professiamo cristiani. Non si tratta di un’etichetta o di una distinzione esteriore, ma di un impegno e di uno stile di vita. Dobbiamo coerentemente « respingere ciò che è contrario a questo nome » e « seguire ciò che gli è conforme ». Le orazioni di questa domenica ritornano su questa esigenza e parlano di « opere di giustizia e di pace »; di annunzio dello Spirito « con la fede e con le opere »; di « cuore attento e generoso verso le sofferenze e le miserie dei fratelli ». Non illudiamoci che basti insistere su questo tema nella liturgia per rendere concreta questa fraternità, che sia sufficiente parlarne. Spesso la consistenza delle nostre azioni è inversamente proporzionata alla frequenza e all’insistenza con cui ne parliamo.
Prima Lettura: Is 55,10-11.
Per quanti ostacoli gli uomini credono di porre di fronte alla Parola e al piano di Dio, essa riuscirà certamente. Ha in sé la virtù di operare. Dio riesce, a dispetto di tutte le apparenze e di tutte le interferenze e opposizioni che l’uomo possa frapporre. E’ un motivo di impegno e di speranza. Ma per parte nostra dobbiamo ricevere questa Parola.
Seconda Lettura : Rm 8,18-23
Siamo già stati redenti, ma ancora siamo sottoposti al travaglio della sofferenza, perché questa redenzione deve diffondersi, purificare, accrescersi. E’ una vita nuova che deve venire alla luce gradatamente. Lo Spirito Santo agisce già, ci è già stato dato come un anticipo, una primizia, dice sempre Paolo. Per tale Spirito siamo a poco a poco liberati dal male e dai suoi condizionamenti. La riuscita è sicura: il termine sarà la redenzione completa e la perfetta conformità con Cristo risorto. Ma la « gloria dei figli di Dio » va aspettata attivamente con la sofferenza delle scelte liberatrici. Il bene è sempre doloroso, è una passione quaggiù, m ha in sé il germe della risurrezione.
Vangelo: Mt 13,1-23.
E’ narrata la vicenda del seme, immagine della Parola di Dio e della sua vicissitudine. Tale Parola riesce certamente, ma di fronte ad essa l’accoglienza può essere assai diversa. Accanto all’accoglienza generosa c’è l'accoglienza incerta, disimpegnata, dubbiosa, incostante, non piena e libera. E persino ci può essere il rifiuto: neppure l’inizio della salvezza. Sono così ritratte varie categorie di uomini e di cristiani. Ascoltare, comprendere e produrre. Ecco l’impegno di ognuno. Per non soggiacere alla condanna di chi ha ricevuto l’annunzio, ma l’ha trascurato, ne ha avuto paura, si è ostinato nel male. La parabola di Gesù era detta agli Ebrei; valeva per la Chiesa primitiva e le sue circostanze; vale per la comunità idi ogg e per ognuno di noi.
Ultimo aggiornamento (Sabato 12 Luglio 2014 20:13)
IL SIGNORE E' RIFUGIO DEGLI UMILI
6 LUGLIO – XIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
« Donaci una rinnovata gioia pasquale »: è la preghiera di una colletta di oggi E infatti questa gioia che si rinnova è la grazia propria della domenica, pasqua settimanale della Chiesa.
Ma deve essere chiara la condizione di questa gioia: dobbiamo essere « liberi dall’oppressione della colpa », da quel giogo del peccato che ci chiude in noi e ci immiserisce sempre più. Tutto diverso è invece « il giogo soave della croce », che ci sgombra il cuore, ci rende « poveri, liberi ed esultanti », a imitazione di Cristo nella sua « umiliazione », e quindi disponibili proprio perché non più attaccati a noi stessi, a portare « in ogni ambiente di vita la parola d’amore e di pace », il Vangelo che è annunzio ed esperienza di gioia pasquale.
Le letture della liturgia di oggi ci parlano di un Messia umile. Secondo le parole del profeta Zaccaria egli si manifesta al mondo cavalcando un asino. E’ Gesù il Messia mite ed umile di cuore annunziato dal profeta che chiama a sé gli affaticati e porta la salvezza del Padre.
Prima Lettura: Zc 9,9-10.
La vittoria del Signore non è nella prepotenza, ma nella giustizia. Alla sua mite ed umile venuta scompaiono i segni e gli strumenti della guerra. I valori terreni sono capovolti: non contano le sicurezze della regalità mondana. Si trovano a valere l’umiltà e la giustizia.
Il re con queste prerogative è il Messia, e sarà Gesù di Nazaret , nel suo ingresso in Gerusalemme, a realizzare questa profezia e a essere motivo di gioia grande. Infatti porterà il Vangelo, annunzio e grazia gioiosa di liberazione.
Seconda Lettura: Rm 8,9.11-13.
La carne e lo Spirito: sono due mondi antitetici.
Il primo è l’uomo di carne, intesa non solo come « corpo » o « sessualità », ma in tutta la sua realtà di fragilità, di debolezza, di condizione di schiavitù sotto il potere del peccato e in quanto si oppone a Dio, alla sua azione e alla sua signoria.
Il dominio della carne si manifesta quando la superbia, l’orgoglio, peccati difficili da riconoscere e più pericolosi, possono rivestirsi esteriormente di devozione e inducono l’uomo a ridurre Dio ad oggetto del proprio pensiero, manipolandolo, possedendolo e dominandolo, pervertendo così le dimensioni più nobili dell’animo umano.
Il secondo è invece l’uomo spirituale, che vive nel regno della grazia, animato dallo Spirito, che inabita in lui e che lo unisce, lo fa appartenere a Cristo e gli assicura la risurrezione con lui.
Nella relazione con Dio l’uomo spirituale riconosce che tutto gli viene per grazia e, nel percepire la sproporzione della gratuità, diventa cosciente del dono di sé che Dio, immeritatamente, gli offre.
In un contesto di rifiuto della rivelazione che Gesù fa e delle sue opere, la fede dei piccoli, degli umili, più che essere conquista deve essere libera risposta dell’uomo alla Parola che lo raggiunge, lo interpella e lo coinvolge e non orgogliosa presunzione di sapere su Dio, che nella sua benevolenza, si rivela ai piccoli e agli umili: « Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza »(Mt11,26).
La condotta del cristiano deve rivelare la presenza in lui dell’azione dello Spirito di Cristo e manifestare l’assoluta novità del suo modo di vivere.
Egli fa « morire le opere del corpo »: non certo la sua realtà corporea e fisica, ma quella che è mossa dal male. Carne qui per Paolo e tutto ciò che si oppone a Cristo, al Vangelo, allo Spirito Santo.
Vangelo: Mt 11,25-30.
Chi è superbamente ingolfato in se stesso, nei propri pregiudizi, nella propria bravura e nella propria illusoria giustizia, non riesce a comprendere il mistero di Gesù. Non riesce a conoscerlo e ad amarlo. La rivelazione di Gesù è concessa come grazia « ai piccoli », agli umili, aperti alla Parola di Dio. Questi, affidandosi a Cristo nei loro affanni, nella loro situazione di dolore, di disagio, di rifiuto da parte dei potenti, di prova, trovano serenità e pace.
Nella ricerca teologica o nell’accogliere la rivelazione di Dio da parte di qualunque credente, è necessario un atteggiamento di umiltà, la consapevolezza della propria piccolezza in ragione della sproporzione che vi è fra lui e Dio.
Il Vangelo non è un giogo che schiaccia, ma un sollievo per chi lo viva con sincerità e coerenza.
Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo.
29 Giugno – Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo.
Pietro e Paolo sono come i due apostoli emblematici e tra coloro che sono stati chiamati, per il ruolo fondamentale che hanno avuto nella Chiesa delle origini e nella storia della Chiesa universale, le hanno dato « le primizie della fede cristiana ».
Noi crediamo secondo il credo apostolico, ricevendo la loro testimonianza e le loro certezze, che sono sempre attuali nella Chiesa, ne formano la tradizione vivente. Ma osserviamo che Pietro e Paolo non furono testimoni di parole, ma a Cristo hanno consacrato la loro vita nel martirio, nel quale sono stati accomunati. La nostra fede deve essere apostolica anche per questa imitazione della vita e dell’esperienza degli apostoli.
I loro doni furono diversi, ma identica fu la passione e il loro fervore per Cristo e la dedizione per la sua Chiesa.
« Con doni diversi – proclama il prefazione – hanno edificato la Chiesa » e oggi, la stessa Chiesa, che li celebra con un’unica solennità, poiché uniti « in gioiosa fraternità » sono « Associati nella venerazione del popolo cristiano e condividono la stessa corona di gloria », prosegue la fede del pescatore di Galilea in Gesù e « Figlio del Dio vivente », cioè la confessione di Pietro, e il magistero di Paolo, che illuminò « le profondità del mistero » di Cristo. Entrambi, pur con le loro differenze culturali, per la storia personale e le vicende affrontate, per le animate polemiche riportate nel Nuovo Testamento, ( differenze che sono ricchezze per una più profonda azione missionaria, ma che devono essere conciliate dalla carità), partecipano all’annunzio del Vangelo.
La professione della fede in contrasto con l’idolatria.
La professione di fede di Pietro, che Gesù è « il Cristo e il Figlio del Dio vivente », riportata dal Vangelo ed espressa a Cesarea di Filippo, (territorio pagano lontano da Gerusalemme, abitato dagli Erodiani, opportunisti e asserviti al potere dei più forti, con l’idolatria del potere e con tutto il corollario di malefatte della famiglia degli erodiani), è significativa, dopo che Gesù ha posto ai discepoli alcune domande capitali: « La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo? » (Mt 16,13); e ancora : « Voi chi dite che io sia? » ( Mt 16,15). Gli apostoli, al di là di quello che dice la gente, che egli è Giovanni il Battista, Elia, Geremia o qualche profeta ( tutti personaggi biblici collegati a Gesù ), non colgono della persona di Gesù il mistero e l’identità, realtà che, se possono essere compresi nel contesto della Scrittura, eccedono rispetto alle risposte date.
Oggi il Vangelo, come agli apostoli e a Pietro, anche a noi chiede chi sia Gesù per noi. Ognuno deve dare la propria risposta personale, che non vuol dire solo sapere ciò che dice il Catechismo di Gesù o inventarsi una nuova dottrina, ma partecipare interiormente e personalmente alla
Fede della Chiesa. Richiede un di più esistenziale che, se vuole la conoscenza della dottrina, ci chiede una più profonda e decisa adesione alla fede.
Il segno della nostra fedeltà agli apostoli è messo in luce nella preghiera dopo la comunione, dove chiediamo « di perseverare nella frazione del pane e nella dottrina degli apostoli, per formare nel vincolo della carità un cuor solo e un’anima sola ».
La fede come relazione vitale.
La fede, se comporta la conoscenza dei contenuti, è soprattutto un’ esperienza vitale. Come ogni relazione che non è mai statica, stabile, immutabile, ma è viva e si incarna in persone in carne e sangue, così tutti i credenti nel Signore, pur nelle differenze, devono esprimere la stessa fede, come Pietro e Paolo, che « con diversi doni, hanno edificato l’unica Chiesa »( Prefazio).
Prima Lettura: At 12,1-11.
Per Pietro in carcere prega tutta la Chiesa, consapevole di ciò che Pietro significa per lei. L’apostolo perseguitato sta sperimentando che cosa vuol dire seguire il Signore ed essere pastore del suo gregge. Ma sente anche la forza liberatrice di Gesù, che lo restituirà alla comunità cristiana.
Seconda Lettura: 2 Tm 4,6-8.17-18.
Per Paolo, che è alla fine della sua vita, la fede è stata un’esperienza esaltante che lo ha accompagnato dal momento in cui Cristo lo ha chiamato sulla via di Damasco. Da uno sguardo retrospettivo essa gli appare una battaglia, una corsa, un impegno fedelmente assunto: « Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno » ( 2Tm 4,6-8). La sua fiducia totale è nel Signore, che darà la corona a lui e a tutti quelli che ne attendono la venuta con amore. La ricompensa che Paolo attende sembrerebbe una magra consolazione, ma è l’essenziale per ogni credente e, giunti alla fine della propria vita, per ognuno può essere più che sufficiente.
Vangelo: Mt 16, 13-19.
Per la perspicacia della sua professione di fede in Gesù, Messia, Figlio di Dio, Pietro viene eletto fondamento della Chiesa, sovraintendente che decide autorevolmente a nome di Cristo. Dietro di lui è Cristo stesso che opera, al quale la Chiesa appartiene. Gesù dice infatti « la mia Chiesa ».
Ultimo aggiornamento (Sabato 28 Giugno 2014 19:22)
Solennità del Corpo e Sangue di Gesù.
22 Giugno – Solennità del Corpo e Sangue di Gesù.
Nella sua fedeltà il Signore, dopo aver liberato il popolo d’ Israele dall' Egitto, averlo condotto lungo il deserto, accudito, nutrito, non è venuto meno alla volontà salvifica a favore dell’uomo, pienamente manifestata in Gesù Cristo che, con il suo Corpo e il suo Sangue, nutre i credenti, realizzando un tangibile legame d’amore tra questi e il Padre.
La Chiesa del Signore, come comunità, non può dimenticare la sua dimensione comunitaria, in cui la fede è vissuta e celebrata, specie nella Eucaristia, che è il « memoriale della Pasqua » del Signore Gesù, morto e risorto. Memoriale vuol dire non un semplice ricordo ma una presenza reale del Corpo e del Sangue del Signore. Celebrando l’Eucaristia noi offriamo il sacrificio della nuova alleanza, ripresentiamo l’immolazione della croce, dove Gesù s’è offerto, Agnello senza macchia. L’altare è anche la mensa della sua cena: vi attingiamo il cibo per il « viaggio della nostra vita », in attesa di essere ammessi al convito del regno eterno.
All’ altare ci riconosciamo fratelli, uniti in « assemblea festosa » a rendere grazie a Dio, che nel sangue di Cristo ci ha creato come suo popolo, legato nella medesima fede e dall’ identica unità e carità, rappresentate nell’ unico pane e nell’ unico calice. Nell’ Eucaristia riceviamo lo Spirito che scaturisce dal Corpo di Cristo e la purificazione di ogni colpa.
Tutto questo deve farci fugare i rischi di considerare la comunità in termini psicologici, o ridurla come gruppo aggregato con dimensione solo affettiva o emotiva, per colmare situazioni compensatorie nelle proprie fragilità: una tale comunità rischierebbe di produrre un gruppo di immaturi che cercano un ovattamento alla vita; oppure percepire la comunità in termini sociologici, perché l’affermazione conciliare sulla Chiesa, come « popolo di Dio », è da intendersi in maniera teologica non sociologica, costituita con votazioni o referendum: esso è l’insieme di coloro che credono, celebrano e praticano la fede cristiana, pur con le loro fragilità.
Infine bisogna evitare un ultimo rischio che è quello di considerare la Comunità come aggregazione per eventi o iniziative di tipo organizzativo, con poco dispendio di energie e con scarsa intensità di comunione spirituale.
Non si può parlare di comunità senza parlare di « comunione », come relazione spirituale e di amore fraterno, che lega sia i presenti come anche coloro che per motivi svariati non possono essere presenti. La comunione trova il suo fondamento nella relazione che ognuno ha con Cristo, e solo questo fa la comunità cristiana. Vi sono infatti tante forme di comunità, ma solo la prerogativa testé esposta realizza una « comunità cristiana ».
L’Eucaristia che rimane dopo la celebrazione della Messa è presenza reale di Cristo, che avvera la promessa di Gesù di non lasciare più la sua Chiesa. Al Cristo del tabernacolo va la nostra adorazione e il nostro culto.
Prima Lettura: Dt 8,2-3. 14-16.
Nell’ arduo cammino del deserto, Dio non ha lasciato mancare al suo popolo il nutrimento. Provato dalla fame, quel popolo fu sostenuto da un cibo singolare, la manna, segno della provvidenza potente e amorosa di Dio.
Così come fu provvidenziale l’acqua straordinariamente sgorgata dalla roccia arida e dura. Veramente Dio non abbandona mai nessun uomo, fosse il più umile e piccolo. In particolare è vicino alla sua Chiesa con la provvidenza dell’Eucaristia.
Seconda Lettura: 1 Cor 10,16-17.
Prendendo parte al calice entriamo in comunione con il Sangue di Cristo; e spezzando e mangiando il pane eucaristico assumiamo il Corpo reale di Gesù. Dunque non si tratta di puri simboli, che accennano da lontano a Gesù: « L’Eucaristia è il Signore, che dona la sua vita per noi; in essa noi lo riceviamo veramente ». Ma l’Apostolo Paolo mette in particolare in luce una conseguenza: se unico è il pane che spezziamo, se unico, quindi, è il Corpo di Gesù, allora noi siamo intimamente uniti, gli uni agli altri.
Siamo molti: ognuno con la propria personalità, la propria fisionomia esteriore e interiore, la propria storia e il proprio temperamento, e tuttavia formiamo come un solo corpo. Non siamo reciprocamente estranei, ma intimamente uniti. Per questo ci dobbiamo amare. E’ il frutto e l’impegno dell’Eucaristia.
Vangelo: Gv 6,51-58.
La comunità del Signore si caratterizza per la comunione che i credenti in lui pongono attorno alla sua presenza, reale e non simbolica, nell’Eucaristia. Le sue parole, come leggiamo nel Vangelo di questa solennità: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui », ci dicono che l’assimilazione della carne e del sangue di Cristo, rendono presente Gesù nel credente e viceversa. Certo le parole “mangiare ” e “ bere ” non sono da intendersi in senso naturalistico, ma vanno intese in senso sacramentale, in quanto mangiare il pane e bere il vino, che per la potenza dello Spirito di Dio, sono trasformati nel Corpo e Sangue di Cristo, rendono presente in noi il Cristo-Dio, e sono “ segni efficaci ”, che compiono ciò che dicono. La partecipazione a questi segni sacramentali è partecipazione da parte nostra agli effetti della passione e al dono della pienezza della vita che Gesù ci comunica.
Adesso il pane che ci nutre, come credenti e come figli di Dio, è la carne, quindi la persona, di Cristo, il quale si offre per noi. Entriamo infatti in profonda comunione con il Corpo e il Sangue di Gesù. Solo così abbiamo la vita, quella vera, che non si logora e che non è destinata ad esaurirsi e a spegnersi. L’Eucaristia ci dona la vita stessa del Padre e del Figlio, Gesù. Grazie all’ Eucaristia e alla vita che in essa riceviamo, a differenza degli antichi ebrei, saremo sottratti all’ esperienza della morte, perché, sostenuti da questo nutrimento lungo il cammino terreno, possiamo giungere alla “ terra promessa ” del Regno celeste. Nell’ Eucaristia già riceviamo il germe della risurrezione e conformazione al Signore che ha vinto la morte. Concludendo, solo dalla comunione con Cristo viene la vera comunione nella comunità che le permette di essere, nell’ og- gi, profezia e annunzio del Regno futuro. Tutto il resto può rendere visibile la comunione nella comunità, ma se manca il centro, cioè Cristo, la Chiesa fallisce lo scopo per cui il Signore l’ha posto nel mondo.
Solennità della Santissima Trinità: Dio incontra l'uomo.
15 Giugno – Solennità della SANTISSIMA TRINITA’
Quello della SS. Trinità è il primo mistero principale della fede cristiana, rivelatoci da Dio. Noi professiamo la fede in un Dio uno e unico, in Tre Persone uguali e distinte, ma non separate. La Teologia cristiana, accogliendo la rivelazione che Dio ha fatto, ha cercato lungo i secoli di indagarne il mistero usando le categorie epistemologiche-conoscitive di ogni epoca, pur sapendo che, come scrive san Agostino nel libro "De Trinitate", vedendo sulla spiaggia del mare di Tegaste un bambino che con un cucchiaio tenta di svuotare il mare trasportandone l’ acqua in una buca, un mistero così grande non può essere pienamente compreso da una mente umana finita e limitata, nel senso di una limitatezza come coscienza delle proprie possibilità e impossibilità.
Alla Santissima Trinità – al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo – è sempre rivolta la nostra preghiera e il nostro rendimento di grazie. Non si tratta di un mistero astratto e lontano. Al contrario: ne possiamo parlare, e vi dedichiamo una festa tutta particolare, proprio perché questo mistero si è fatto vicino. E’ un mistero di relazione, di amore, comunione e intimità fra le tre Persone. La SS. Trinità è un Dio che costantemente si dona all’ uomo rendendolo partecipe di questa relazione, fino al punto di comunicarsi a lui. Il mistero di Dio si è aperto quando ci è stato inviato come nostro redentore Gesù, il Figlio stesso di Dio e quando ci è stato elargito « lo Spirito Santo d’amore », che ci ha riconciliato e santificato. Allora ci è stato rivelato « il mistero della vita di Dio ». La Trinità Santissima se sfugge alla nostra comprensione, tuttavia inabita in noi, è un’esperienza: un’esperienza ancora velata, ma « nella pazienza e nella speranza » siamo incamminati e tesi verso la « piena conoscenza » di Dio « amore e vita ».
Prima Lettura: Es 34,4-6.8-9
Il nostro Dio è un Dio per noi, per la nostra salvezza, Dio di misericordia, « ricco di amore ». Nella rivelazione che Dio fa di sé per la seconda volta a Mosè ridona le tavole della Legge, poiché una prima volta il popolo aveva deviato dalla fedeltà agli impegni dell’alleanza, quando si era dato all’ idolatria, prostrandosi in adorazione davanti al vitello d’oro, fatto da Aronne, e attribuendo ad esso l’opera della liberazione dall’ Egitto. Nonostante questa infedeltà, Dio, per intercessione di Mosè, perdona al suo popolo perché è « il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ ira e ricco di amore e di fedeltà » ( Es 34,6).
Ma Mosè sente Dio vicino e pieno di grazia, perché è un Dio che cammina in mezzo al suo popolo, che perdona le sue colpe,« anche se è di dura cervice ». Mosè davanti a Dio riconosce il peccato di tutto il popolo e chiede che lo scelga e lo tratti come suo possesso. Questa presenza divina raggiungerà la sua pienezza quando a camminare in mezzo a noi sarà lo stesso Figlio di Dio; quando all’ umanità, dal Padre e dal Figlio, sarà inviato come Dono lo Spirito Santo. Allora potremo capire la misura della pietà e della vicinanza di Dio: Trinità Santissima rivelata e comunicata agli uomini.
Seconda Lettura: 2 Cor 13,11-13
Nel saluto di Paolo – il saluto tipicamente cristiano – sono proclamate le Tre Persone divine della Santissima Trinità: il Signore Gesù, il Padre, lo Spirito Santo. Ma non come astratta enunciazione: del Figlio è ricordata la grazia che ci è elargita, del Padre è sottolineato l’amore, dello Spirito Santo la comunione. La Santissima Trinità si è dunque aperta nel suo mistero e si è trasmessa a noi con la venuta del Figlio, che ci ha redenti mediante il dono dello Spirito. Più che a riflettere per capire, siamo chiamati ad accogliere per amare, dal momento che le Tre Persone Santissime sono in viva relazione con noi, fino a dimorare nel cuore di chi è in grazia.
Vangelo: Gv 3,16-18.
Del dono di Dio all’ uomo ci parla Gesù nel suo colloquio con Nicodemo a cui svela il progetto di salvezza del Padre, che per sua iniziativa d’amore sovrabbondante, generoso e oblativo, manda il suo Figlio, consegnato per la salvezza del mondo. Questo mondo a volte si oppone a Dio, lo contrasta e rifiuta il suo amore, mentre altre volte, riconoscendo l’uomo il proprio stato di prostrazione, lo ricerca e si rivolge a lui. Nell’ insegnamento e nella rivelazione che Gesù fa di Dio il mondo è oggetto dell’amore di Dio che lo cerca e lo attira al suo amore.
Così abbiamo saputo di avere un Padre quando ci è stato inviato da Dio il Figlio Unigenito per la salvezza del mondo, la cui missione, frutto di questa iniziativa del Padre, è assunta e condivisa da Gesù perché potessimo avere la vita di Dio in noi. A questa iniziativa di Dio deve corrispondere da parte nostra l’accoglienza nella fede di questo Dono del Padre, nel quale riceviamo la salvezza; la fede nelle parole, nelle opere e nei gesti di Gesù; la fede come affidamento e fondamento della conoscenza del mistero di Dio. Il mistero del Padre e del Figlio appare così non come lontana e difficile verità, ma come partecipazione nostra alla vita di Dio. Né manca lo Spirito Santo, poiché la vita di Dio, portataci dal Figlio, viene in noi grazie allo Spirito Santo: e infatti noi nasciamo di nuovo, dall’ alto, per virtù dello Spirito, la Terza Persona della Santissima Trinità.