





Solennità della Santissima Trinità: Dio incontra l'uomo.
15 Giugno – Solennità della SANTISSIMA TRINITA’
Quello della SS. Trinità è il primo mistero principale della fede cristiana, rivelatoci da Dio. Noi professiamo la fede in un Dio uno e unico, in Tre Persone uguali e distinte, ma non separate. La Teologia cristiana, accogliendo la rivelazione che Dio ha fatto, ha cercato lungo i secoli di indagarne il mistero usando le categorie epistemologiche-conoscitive di ogni epoca, pur sapendo che, come scrive san Agostino nel libro "De Trinitate", vedendo sulla spiaggia del mare di Tegaste un bambino che con un cucchiaio tenta di svuotare il mare trasportandone l’ acqua in una buca, un mistero così grande non può essere pienamente compreso da una mente umana finita e limitata, nel senso di una limitatezza come coscienza delle proprie possibilità e impossibilità.
Alla Santissima Trinità – al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo – è sempre rivolta la nostra preghiera e il nostro rendimento di grazie. Non si tratta di un mistero astratto e lontano. Al contrario: ne possiamo parlare, e vi dedichiamo una festa tutta particolare, proprio perché questo mistero si è fatto vicino. E’ un mistero di relazione, di amore, comunione e intimità fra le tre Persone. La SS. Trinità è un Dio che costantemente si dona all’ uomo rendendolo partecipe di questa relazione, fino al punto di comunicarsi a lui. Il mistero di Dio si è aperto quando ci è stato inviato come nostro redentore Gesù, il Figlio stesso di Dio e quando ci è stato elargito « lo Spirito Santo d’amore », che ci ha riconciliato e santificato. Allora ci è stato rivelato « il mistero della vita di Dio ». La Trinità Santissima se sfugge alla nostra comprensione, tuttavia inabita in noi, è un’esperienza: un’esperienza ancora velata, ma « nella pazienza e nella speranza » siamo incamminati e tesi verso la « piena conoscenza » di Dio « amore e vita ».
Prima Lettura: Es 34,4-6.8-9
Il nostro Dio è un Dio per noi, per la nostra salvezza, Dio di misericordia, « ricco di amore ». Nella rivelazione che Dio fa di sé per la seconda volta a Mosè ridona le tavole della Legge, poiché una prima volta il popolo aveva deviato dalla fedeltà agli impegni dell’alleanza, quando si era dato all’ idolatria, prostrandosi in adorazione davanti al vitello d’oro, fatto da Aronne, e attribuendo ad esso l’opera della liberazione dall’ Egitto. Nonostante questa infedeltà, Dio, per intercessione di Mosè, perdona al suo popolo perché è « il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ ira e ricco di amore e di fedeltà » ( Es 34,6).
Ma Mosè sente Dio vicino e pieno di grazia, perché è un Dio che cammina in mezzo al suo popolo, che perdona le sue colpe,« anche se è di dura cervice ». Mosè davanti a Dio riconosce il peccato di tutto il popolo e chiede che lo scelga e lo tratti come suo possesso. Questa presenza divina raggiungerà la sua pienezza quando a camminare in mezzo a noi sarà lo stesso Figlio di Dio; quando all’ umanità, dal Padre e dal Figlio, sarà inviato come Dono lo Spirito Santo. Allora potremo capire la misura della pietà e della vicinanza di Dio: Trinità Santissima rivelata e comunicata agli uomini.
Seconda Lettura: 2 Cor 13,11-13
Nel saluto di Paolo – il saluto tipicamente cristiano – sono proclamate le Tre Persone divine della Santissima Trinità: il Signore Gesù, il Padre, lo Spirito Santo. Ma non come astratta enunciazione: del Figlio è ricordata la grazia che ci è elargita, del Padre è sottolineato l’amore, dello Spirito Santo la comunione. La Santissima Trinità si è dunque aperta nel suo mistero e si è trasmessa a noi con la venuta del Figlio, che ci ha redenti mediante il dono dello Spirito. Più che a riflettere per capire, siamo chiamati ad accogliere per amare, dal momento che le Tre Persone Santissime sono in viva relazione con noi, fino a dimorare nel cuore di chi è in grazia.
Vangelo: Gv 3,16-18.
Del dono di Dio all’ uomo ci parla Gesù nel suo colloquio con Nicodemo a cui svela il progetto di salvezza del Padre, che per sua iniziativa d’amore sovrabbondante, generoso e oblativo, manda il suo Figlio, consegnato per la salvezza del mondo. Questo mondo a volte si oppone a Dio, lo contrasta e rifiuta il suo amore, mentre altre volte, riconoscendo l’uomo il proprio stato di prostrazione, lo ricerca e si rivolge a lui. Nell’ insegnamento e nella rivelazione che Gesù fa di Dio il mondo è oggetto dell’amore di Dio che lo cerca e lo attira al suo amore.
Così abbiamo saputo di avere un Padre quando ci è stato inviato da Dio il Figlio Unigenito per la salvezza del mondo, la cui missione, frutto di questa iniziativa del Padre, è assunta e condivisa da Gesù perché potessimo avere la vita di Dio in noi. A questa iniziativa di Dio deve corrispondere da parte nostra l’accoglienza nella fede di questo Dono del Padre, nel quale riceviamo la salvezza; la fede nelle parole, nelle opere e nei gesti di Gesù; la fede come affidamento e fondamento della conoscenza del mistero di Dio. Il mistero del Padre e del Figlio appare così non come lontana e difficile verità, ma come partecipazione nostra alla vita di Dio. Né manca lo Spirito Santo, poiché la vita di Dio, portataci dal Figlio, viene in noi grazie allo Spirito Santo: e infatti noi nasciamo di nuovo, dall’ alto, per virtù dello Spirito, la Terza Persona della Santissima Trinità.
Lo Spirito vi renderà testomoni.
8 Giugno – Domenica di Pentecoste.
Lo Spirito vi renderà miei testimoni.
In questa solennità, che porta a compimento il mistero pasquale, per i credenti e per tutti coloro che lo accolgono, si realizza ciò che Gesù promise nell’ultima Cena, assicurandoci che non ci avrebbe lasciati soli, ma che avrebbe, salito al Padre, inviato Il Consolatore, lo Spirito di verità. Lo Spirito, in questa liturgia, ci invita a vedere l’opera di Dio nel mondo e ci illumina, esorta e ci da la forza di corrispondere al suo amore, portando ad una maggiore pienezza il cammino di fede. Questo giorno ricorda e attualizza, in ogni tempo e latitudine, la Pentecoste, il tempo nuovo della Chiesa, che accoglie lo Spirito e i suoi benefici effetti nella sua vita.
Così la Chiesa, corpo di Cristo, è sostenuta ed è fatta crescere dallo Spirito, meritato da Gesù in croce e inviato da lui risorto nel giorno di Pentecoste. Dove c’è lo Spirito là è presente il Signore e la comunità della nuova alleanza, a cui sono aggregati tutti i popoli; là è in atto il mistero pasquale. Come afferma il prefazio: « Oggi hai portato a compimento il mistero pasquale e su coloro che hai reso figli di adozione in Cristo tuo Figlio hai effuso lo Spirito Santo ». In ogni sacramento agisce lo Spirito Santo. Ma lo Spirito è destinato ad inabitare dentro di noi come alito di vita, a essere il suggerimento e l’impulso alle nostre azioni.
Dobbiamo essere accesi dal fuoco di questo Spirito, che si alimenta ad ogni comunione col Corpo e Sangue del Signore, e che si rivela nella « carità ardente » di cui parla l’orazione sulle offerte della Messa vespertina. E’ così che lo Spirito rinnova il prodigio dell’unità che raccoglie gli uomini dispersi e che trasforma qualitativamente le nostre azioni, facendotjci agire secondo la volontà di Dio. E’ allora che egli ci consola nell’intimo.
Quando si parla della vita « spirituale » si intende una vita che abbia come maestro e come suggeritore lo Spirito Santo, che ridesterà i nostri corpi per la risurrezione. Non è una cosa complicata o eccezionale lasciarci condurre da lui. Dev’essere il fatto semplice e sereno – e pure tanto straordinario – di ogni giorno.
Ancora. Il significato dell’evento di Pentecoste è riassunto dalla colletta della Messa:« O Padre, che nel mistero della Pentecoste santifichi la tua Chiesa in ogni popolo e nazione, diffondi sino ai confini della terra i doni dello Spirito Santo ». E’ lo Spirito Santo che anima la comunità cristiana, che porta e rende efficace il Vangelo di Gesù Cristo, che ci inizia alla conoscenza del suo mistero. E’ lo Spirito che ci fa crescere nelle opere di giustizia , quelle che si compiono per la sua ispirazione ed energia dopo che ci ha rinnovato il cuore e lo ha reso giusto. La solennità di oggi – che conclude quel lungo e meraviglioso tempo pasquale che ci ha intrattenuto a meditare ed approfondire il mistero della morte e risurrezione del Signore – ci offre la prospettiva secondo la quale ormai dobbiamo vivere, ogni giorno dell’anno liturgico, l’impronta della morte e risurrezione del Signore, della vita nuova sorta dallo Spirito che ci conduce, ci fa agire e ci prepara alla conformità con il Signore risorto.
Prima Lettura: At 2,1-11.
I discepoli di Gesù sono stati obbedienti. Hanno atteso lo Spirito Santo promesso, che appare nel segno del fuoco e della parola: « apparvero lingue come di fuoco ». Venuto lo Spirito incomincia l’evangelizzazione , l'annunzio delle « grandi opere di Dio », che si riassumono nell’avvenimento della morte e della risurrezione di Gesù. Ciò che sorprende è che ognuno sente la gioiosa proclamazione nella propria lingua, pur essendo dei Galilei a parlare. L’insolenza della torre di Babele e il castigo della confusione sono vinti con la proclamazione del Vangelo. La fede, pur volgendosi a popoli, lingue, tradizioni diverse, crea l’unità, perché tutti sono chiamati a diventare figli di Dio. E’ il tema del prefazio: « la confusione che la superbia aveva portato tra gli uomini è ricomposta in unità dallo Spirito Santo ». Esaminiamoci se siamo cooperatori di unità o se invece fomentiamo la discordia; se, rompendo il cerchio che ci chiude in noi stessi, sappiamo uscire verso gli altri e quindi creare comunione.
Seconda Lettura: 1 Cor 12,3-7.12-13.
San Paolo descrive quali sono le funzioni dello Spirito Santo. La prima, e fondamentale, è che, sotto la sua azione, noi possiamo riconoscere che Gesù di Nazaret è il Signore, il Figlio di Dio risorto e glorioso. Lo Spirito Santo ci disvela l’intimo mistero di Cristo. Dall’unico Spirito poi derivano i vari carismi, i diversi doni della Chiesa: diversi come espressione ma tutti aventi, con la stessa origine, l’identico fine di edificare la comunità cristiana. L’apostolo quindi offre alla Chiesa i criteri per riconoscerli in ogni situazione: nessuno li possiede tutti, ma ciascuno ne possiede qualcuno. Il criterio più importante è che sono doni dati non perché servano alla nostra vanagloria, ma al « bene comune »: se edificano e fanno crescere la comunità sono dallo Spirito, come avviene delle diverse membra del corpo, con le svariate funzioni, tutte destinate al benessere del corpo; se invece dividono, frazionano, creano partiti e gruppi di pressione, se smembrano la comunità, non sono dallo Spirito. Non bisogna farsi affascinare troppo dai carismi più evidenti, perché possono esserci carismi grandi e importanti nell’ordinarietà della vita e che spesso vengono sottovalutati. Determinante è quello della fede: « nessuno può dire: “ Gesù è il Signore ”, se non sotto l’azione dello Spirito »( 1 Cor 12,3).
Con il Battesimo nell’identico Spirito formiamo « un corpo solo », dove le distinzioni sono secondarie.
Questa considerazione di san Paolo ci spinge a collaborare con generosità e con gratuità nella comunità cui apparteniamo, non guardando all’interesse o al ricavo personale come unico scopo del nostro lavoro; a mettere volentieri in comune i doni che Dio ci ha fatto; e a far contenti gli altri. Sono infiniti i modi con cui possiamo vivere la dimensione comunitaria della fede e della esperienza cristiana.
Vangelo: Gv 20,19-23.
Secondo Giovanni la stessa sera di Pasqua Gesù risorto effonde sui discepoli lo Spirito Santo. Ormai Gesù era stato glorificato, e quindi aveva il potere di effondere il Dono di Dio per eccellenza, il « primo Dono » ai credenti.
Questa effusione pasquale dello Spirito sugli apostoli e il racconto della Pentecoste, pur essendo episodi diversi, realizzano la promessa fatta da Gesù nella Cena: di non lasciarli orfani e di inviare lo Spirito. E se l’episodio pasquale, a porte chiese, vuole, con il dono dello Spirito, far allontanare dagli apostoli la paura e l’incredulità, assicurando loro la presenza costante di Gesù nella loro vita e in quella della comunità, la Pentecoste, rende presente il Dono per tutti gli uomini, che così potranno essere radunati da ogni parte del mondo in unità, esprimendo la molteplicità dei linguaggi con cui sarebbe stato annunciato e testimoniato il Vangelo della salvezza universale, operata da Gesù e attuata, per il ministero della Chiesa, dallo Spirito del Signore.
Gesù, con il dono della pace pasquale, augurata ai discepoli mostrando le sue piaghe, vuole mostrare che la via della passione, assunzione del male che affligge l’uomo, e della risurrezione, sconfitta totale e definitiva di esso, è il percorso che deve essere seguito per conseguire la pace vera, quella che solo lui può dare e non come la dà il mondo.
Augurando per la seconda volta la pace ed effondendo lo Spirito, Gesù vuole consegnare alla Chiesa il principio per la remissione dei peccati: come conseguenza della sua vittoria sul male, donare la pienezza di ogni benedizione divina e il potere di perdonare i peccati, perché il male, i conflitti e le tribolazioni non possono rendere inefficace la salvezza, che è dono e nella quale riposa la speranza cristiana. La Chiesa, quindi, è servizio dello Spirito per il perdono. Potrà anche non rimettere i peccati, quando manchi la conversione del cuore, senza della quale la porta allo Spirito rimane chiusa.
Gesù, soffiando lo Spirito e richiamando l’azione creativa di Dio della Genesi, instaura nei discepoli e nel mondo una nuova creazione, inaugurata dalla sua risurrezione, di cui godono e fanno parte per grazia tutti coloro che credono. Con lo Spirito donato inizia, come continuazione della sua, anche la missione della Chiesa, che si esplica nell’annunzio del perdono di cui ha fatto esperienza. Questa missione inizia con la Pentecoste, nuova effusione dello Spirito, quando gli apostoli parlano varie lingue e tutti i presenti odono e comprendono il messaggio da loro annunziato: unico e uguale nei secoli ma esprimibile in modo che possano comprenderlo, perché destinato a tutti, anche se ognuno dovrà sentirselo dire in modo a lui comprensibile. Spetta poi agli evangelizzatori essere creativi ed esprimerlo con modi e formule adeguate ai tempi.
Molti sono i modi con cui possiamo invocare e ricevere lo Spirito del Signore, ma dall’Eucaristia – sacramento del Corpo di Cristo – continua in particolare a esserci dato lo Spirito di Gesù. Nell’orazione dopo la comunione chiederemo: « la partecipazione alla tua mensa, o Padre, ci comunichi il fervore dello Spirito ». Del resto è lo Spirito Santo che rende presente Gesù Cristo nell’Eucaristia.
Ultimo aggiornamento (Sabato 07 Giugno 2014 17:31)
Ascensione del Signore.
1 GIUGNO – VII Domenica di PASQUA
ASCENSIONE DEL SIGNORE
Gesù, « vincitore della peccato e della morte, ci ha preceduti nella dimora eterna, per darci la serena speranza che dove è lui, capo e primogenito, saremo anche noi sue membra, uniti nella stessa gloria »: è quello che canta oggi il primo prefazio con tanta solennità, ma che dobbiamo tener presente in ogni giorno della vita. Nell’umanità di Gesù presso il Padre siamo già in qualche modo presenti anche noi, proprio perché egli è il Capo del corpo che siamo noi. Speriamo la salvezza e la gloria eterna perché egli l’ha acquistata per sé e per noi. Non siamo lasciati alla nostra povertà – dice ancora il prefazio -: adesso ci è donata la grazia di Cristo che attende di maturare nella sua stessa gloria. Da lui che è il Mediatore siamo già legati con Dio.
Ma se lungo il cammino terreno siamo presi dal dubbio e ci sentiamo smarriti nella ordinarietà e monotonia della nostra vita e di quella della Chiesa, non dobbiamo, però, credere che egli ci abbia abbandonato, perché la sua presenza, resa costante dallo Spirito inviato, ci accompagna nella missione nel mondo e ci fa attendere con fiducia e operosità il sua ritorno futuro, come dicono gli angeli nel momento in cui sale verso il cielo. Operosità vuol dire impegno a vivere in maniera degna di essere accolti nella sua gioia di Signore risorto.
Prima Lettura: At 1,1-11.
Dopo che nei discepoli ha preso sicura consistenza la certezza della risurrezione di Gesù, di cui avevano dubitato in varie occasioni, e davanti al quale, dice Matteo, « quando essi lo videro, si prostrarono », egli sale al cielo. Non è un abbandono e una lontananza: dalla destra del Padre Cristo invia lo Spirito, perché i fedeli, ricevendolo in pienezza, siano fortificati per la testimonianza che devono rendere al Risorto. E’ lo stesso Spirito che accompagna i discepoli nella loro missione. Essi infatti non devono rimanere inattivi aspettando la venuta gloriosa di Gesù. Non devono preoccuparsi di quando sarà la fine del mondo e il termine della storia. Sicuramente il Maestro tornerà. Durante poi questo tempo di attesa, la testimonianza si manifesta specialmente nelle opere della fede e della carità, che esprimono il desiderio di riunirsi al Signore.
Se da una parte la comunità del Signore sempre lungo la sua storia, come lo fu dall’inizio, può sperimentare momenti e fatti che non l’hanno resa splendida Sposa di Cristo, dall'altra ha anche molte pagine di testimonianza discreta e, oggi, con frequenza, eroica di tanti martiri. D’altronde Gesù stesso lo aveva detto: « Sarete perseguitati, ma riceverete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra » (At 1,8-9). Così la Chiesa, pur fragile e ferita, può continuare a dare speranza agli uomini e ognuno trovare il proprio spazio di crescita umana e spirituale, poiché non è fatta di puri, ma è costituita come comunità, che nel nome del Signore accoglie i peccatori, i quali, pur zoppicando, si sforzano di imitarlo.
Seconda Lettura: Ef 1, 17-23.
I cristiani aspettano tutti un’eredità, anche i più poveri ai quali non sia mai avvenuto di ereditare. E’ il tesoro della gloria che riceveranno con tutti i santi e che sarà donata in Gesù Signore risorto e glorioso. Il destino di Cristo è ormai il nostro destino: egli è il capo della Chiesa e noi ne siamo il corpo. Domandiamo per noi quanto san Paolo chiedeva per la sua comunità: « uno spirito di sapienza per una più profonda conoscenza del Dio del Signore nostro Gesù Cristo »; domandiamo di avere gli « occhi del cuore » per comprendere la nostra speranza. Fin che non raggiungiamo questo livello, ogni notizia sul mondo, sulle cose, sulla storia ci serve a poco. Chi invece ha capito Gesù ha acquistato la vera scienza. Capire però qui indica prender parte, assaporare, gustare e vivere. A questo punto tutto il resto acquista una proporzione nuova e diversa. Disponiamo di un criterio per valutare veramente le cose, per superarle e disincantarle. E’ il criterio del distacco che hanno i santi, il cui desiderio supremo è il Signore.
Vangelo: Mt 28, 16-20.
La Chiesa, comunità di santi e di peccatori, in obbedienza al comando di Gesù (Mt28,10), convocata da lui che l’ha beneficiato della rivelazione di sé nel suo corpo glorioso e investita di una dignità altissima, intraprende fin dal tempo apostolico la missione di testimoniare e realizzare, non a proprio nome, ma a nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, l’opera salvatrice dell’umanità da lui iniziata. Sono le Tre Persone della Santissima Trinità che danno valore alla predicazione, ai sacramenti e al ministero.
Immediatamente, poi, la missione esprime il potere di Gesù risorto: è lui che invia e rende efficaci gli atti di quelli che sono mandati. E’ lui che è presente perché la sua opera si estenda al mondo. L’ascensione non ci toglie Gesù, al contrario lo ravvicina a ogni tempo e a ogni spazio, perché con lui si stabilisca il rapporto di salvezza. Le sue ultime parole ci sono motivo di conforto e di speranza: « Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo ». Nessun momento più è vuoto e privo della presenza del Signore. Da qui l’orazione come colloquio ed esperienza personale di Cristo. Il vertice di questa presenza e di questa comunione si trova nell’Eucaristia. In essa la relazione con Gesù asceso al cielo raggiunge il suo momento più perfetto. Ma dove c’è Gesù Cristo là c’è il Padre, c’è il cielo. Allora non è fuor di luogo dire che l’Eucaristia è già, in anticipo la Vita eterna.
Dai «Discorsi» di san Leone Magno, papa
(Disc. 2 sull’Ascensione 1, 4; PL 54, 397-399)
L’Ascensione del Signore accresce la nostra fede
Nella festa di Pasqua la risurrezione del Signore è stata per noi motivo di grande letizia. Così ora è causa di ineffabile gioia la sua ascensione al cielo. Oggi infatti ricordiamo e cele- briamo il giorno in cui la nostra povera natura è stata elevata in Cristo fino al trono di Dio Padre, al di sopra di tutte le milizie celesti, sopra tutte le gerarchie angeliche, sopra l’altezza di tutte le potestà. L’intera esistenza cristiana si fonda e si eleva su un’arcana serie di azioni divine per le quali l’amore di Dio rivela maggiormente tutti i suoi prodigi. Pur trattandosi di misteri che trascendono la percezione umana e che ispirano un profondo timore riverenziale, non per questo vien meno la fede, vacilla la speranza e si raffredda la carità.
Credere senza esitare a ciò che sfugge alla vista materiale e fissare il desiderio là dove non si può arrivare con lo sguardo, è forza di cuori veramente grandi e luce di anime salde. Del resto, come potrebbe nascere nei nostri cuori la carità, o come potrebbe l’uomo essere giustificato per mezzo della fede, se il mondo della salvezza dovesse consistere solo in quelle cose che cadono sotto i nostri sensi?
Perciò quello che era visibile del nostro Redentore è passato nei riti sacramentali. Perché poi la fede risultasse più autentica e ferma, alla osservazione diretta è succeduto il magistero, la cui autorità avrebbero ormai seguito i cuori dei fedeli, rischiarati dalla luce superna.
Questa fede si accrebbe con l’ascensione del Signore e fu resa ancor più salda dal dono dello Spirito Santo. Non riuscirono ad eliminarla con il loro spavento né le catene, né il carcere, né l’esilio, né la fame o il fuoco, né i morsi delle fiere, né i supplizi più raffinati, escogitati dalla crudeltà dei persecutori. Per questa fede in ogni parte del mondo hanno combattuto fino a versare il sangue, non solo uomini, ma anche donne; non solo fanciulli, ma anche tenere fanciulle. Questa fede ha messo in fuga i demoni, ha vinto le malattie, ha risuscitato i morti.
Gli stessi santi apostoli, nonostante la conferma di numerosi miracoli e benché istruiti da tanti discorsi, si erano lasciati atterrire dalla tremenda passione del Signore e avevano accolto, non senza esitazione, la realtà della sua risurrezione. Però dopo seppero trarre tanto vantaggio dall’ascensione del Signore, da mutare in letizia tutto ciò che prima aveva causato loro timore. La loro anima era tutta rivolta a contemplare la divinità del Cristo, assiso alla destra del Padre. Non erano più impediti, per la presenza visibile del suo corpo, dal fissare lo sguar- do della mente nel Verbo, che, pur discendendo dal Padre, non l’aveva mai lasciato, e, pur risalendo al Padre, non si era allontanato dai discepoli.
Proprio allora, o dilettissimi, il Figlio dell’uomo si diede a conoscere nella maniera più sublime e più santa come Figlio di Dio, quando rientrò nella gloria della maestà del Padre, e cominciò in modo ineffabile a farsi più presente per la sua divinità, lui che, nella sua umanità visibile, si era fatto più distante da noi.
Allora la fede, più illuminata, fu in condizione di percepire in misura sempre maggiore l’identità del Figlio con il Padre, e cominciò a non aver più bisogno di toccare nel Cristo quella sostanza corporea, secondo la quale è inferiore al Padre. Infatti, pur rimanendo nel Cristo glorificato la natura del corpo, la fede dei credenti era condotta in quella sfera in cui avrebbe potuto toccare l’Unigenito uguale al Padre, non più per contatto fisico, ma per la contemplazione dello spirito.
chi ama Cristo è amato dal Padre.
25 MAGGIO – VI Domenica di Pasqua.
Chi ama Cristo è amato dal Padre.
La nostra fede spesso è vissuta nel timore che Dio ci punisca. Essere cristiano significa che Dio è premuroso verso di noi, si preoccupa e ci ama come un padre provvidente. Ha mandato il suo Figlio unigenito, Cristo Gesù, che è morto per noi, per liberarci dalla morte e ci assicura che, anche se non possiamo vederlo, toccarlo, egli non ci lascia soli, perché il suo Spirito ci accompagna sempre.
Tutto il tempo pasquale è pervaso di letizia. Essa però non scaturisce dal successo delle nostre imprese terrene, o perché i nostri giorni non conoscono motivi di ansia. E’ la letizia che viene dalla costatazione e dalla certezza che siamo stati liberati dalla vera causa della tristezza, il Peccato, e che il Signore risorto ci ha riportati ad una speranza che non conoscerà delusioni: la speranza della gloria eterna con lui.
Bisogna che torniamo spesso – e perciò è provvida la domenica – a tutto quello che Cristo ha fatto e insegnato: allora non si inaridirà la ragione della nostra gioia. C’è in particolare una strada che mette in fuga l’avvilimento: è quella di uscire da noi, sull’esempio di Gesù che per il primo ha dato la sua vita per gli altri. Carità e letizia sono strettamente congiunte.
Prima Lettura: At 8,5-8.14-17.
Pietro e Giovanni effondono con l’imposizione delle mani la pienezza dello Spirito Santo. E’ questo dono di Cristo che ci rinnova, che mette in fuga gli spiriti immondi. Il peccato lascia come una traccia della presenza del demonio ma i battezzati, per la loro fede e per i sacramenti, ne sono liberati. Questa novità deve manifestarsi nel comportamento, nel percorso della strada della giustizia, come diceva la prima preghiera di questa messa.
Seconda Lettura: 1 Pt 3,15-18.
La lettera di Pietro è ricca di insegnamenti preziosi. Eccoli: occorre adorare il Signore Gesù nei nostri cuori, coltivare l’amicizia con lui attraverso il colloquio della confidenza e dell’orazione. Un altro insegnamento: dobbiamo rendere ragione, dire i motivi per cui crediamo, e questo comporta anche un impegno a studiare il Vangelo e a comprenderlo. Dobbiamo essere non irriguardosi, prepotenti e irritanti, ma dolci, leali, rispettosi. Non meravigliamoci infine se dobbiamo patire qualcosa per la fede, come Gesù, del resto, che è morto per noi. Ed ecco un principio che deve esserci di guida nella nostra condotta: « Se questa è la volontà di Dio, è meglio soffrire operando il bene che facendo il male».
Vangelo: 14,15-21.
Gesù, in questo brano del Vangelo, mette in continua tensione l’attesa e il possesso, la promessa e la realizzazione. Ai discepoli, che si sentono abbandonati per aver detto che dove lui andava loro non potevano andare, Gesù li chiama “figlioli ”, promette di non abbandonarli per sempre e di pregare il Padre perché dia loro lo Spirito Paraclito. Se Giovanni scrive queste parole dette da Gesù nell’ultima Cena dopo l’evento della risurrezione, l’averlo rivisto risorto diventa il compimento del suo permanere tra loro e per noi credenti, il vederlo nella visione della fede, diventa l’attuazione, nel nostro oggi, della promessa della sua presenza costante: « … Non vi lascerò orfani: verrò di nuovo ».
Questa presenza istaura una comunione nell’intimo di ogni discepolo, perché Gesù dice: « Io sono nel Padre mio, e voi in me ed io in voi », dopo aver detto: « Io pregherò il Padre mio ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga sempre con voi » ( Gv 14,16). Così viene delineato il legame d’amore fra le Persone divine e il credente, legame esistenziale, concreto e pratico. La presenza della Trinità nella vita non è legata ad un luogo, il tempio, un luogo di culto, ma alla persona del credente.
Il tempo dello Spirito.
Il tempo che intercorre tra le parole dette di Gesù e il compimento delle sue promesse, il tempo della Chiesa e il nostro è animato dal suo Spirito, che realizza quelle promesse. Lo Spirito, che è Spirito di verità, ci fa comprendere la Parola di Gesù e ci dà la forza di testimoniarla, come avviene con la parola che predica Filippo presso i Samaritani, che credono e si convertono perché la testimonianza dell’apostolo rende credibile quella Parola. Ancora, in una comunità tribolata, come scrive san Pietro, lo Spirito anima la concretezza della vita cristiana: « E’ meglio soffrire operando il bene che facendo il male ». A sorreggere questa resistenza nel bene è la speranza che unisce, per mezzo della fede, a Cristo anche nei momenti delle tribolazioni. Questa testimonianza, tradotta in opere concrete, interroga anche i non credenti, a cui bisogna essere « sempre pronti a rispondere a chiunque vo domandi ragione della speranza che è in voi » ( Pt 3,15)
La presenza dello Spirito promesso è un dono che si riceve solo se il discepolo si decide ad accogliere l’invito di Gesù: « Se mi amate, osserverete i miei comandamenti … Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama » (Gv 14,15.21). Così l’amore non è un semplice sentimentalismo, perché si modella sul suo, poiché dice: « Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici » ( Gv 15,17).
Presso di noi, dunque, abita lo Spirito Santo, chiamato da Gesù il Paraclito, il consolatore, che porta la verità, che è Gesù stesso e il suo Vangelo. Ma il luogo dove lo Spirito abita è il cuore dei discepoli di Gesù, mediante la grazia. Gesù dice un’altra cosa nel brano che segue: « Non vi lascerò orfani ». E infatti lo Spirito Santo è il segno che Cristo è con noi e non ci abbandona a noi stessi, alla nostra solitudine. Poi ci sarà il suo ritorno glorioso, quando lo vedremo insieme col Padre. Sarà già il momento della morte, che allora non va aborrito, ma per questo motivo atteso con gioia, si direbbe perfino con impazienza. Però adesso si devono mettere in pratica i comandamenti di Gesù: « Chi li osserva, questi è colui che mi ama ». Ecco un principio fondamentale e chiarissimo. Le parole da sole non sono indice di amore.
Gesù si proclama:Via, Verità e Vita.
18 Maggio – V Domenica di Pasqua.
Gesù, Via, Verità e Vita.
Oggi siamo chiamati a riflettere sul ruolo che ha Cristo nella nostra vita.
Gesù, a Tommaso che gli chiede di non conoscere la via dove va, si dichiara l’unica Via che conduce al Padre, come Verità della rivelazione, come unica Vita autentica. A Filippo, che gli chiede di mostrargli il volto del Padre, Gesù risponde: « Chi vede me, vede il Padre …. Io sono nel Padre e il Padre è in me ». Gesù, come unico rivelatore del Padre, immette nella intimità che c’è tra il Padre e il Figlio, perché dice:« Io sono nel Padre e il Padre è in me » e ai discepoli chiede: « Rima- nete in me ed io in voi » (Gv 15,4). Questa intimità si realizza oggi con la mediazione del Cristo risorto, presente nella Parola delle Scritture, attraverso la sua presenza nel pane e nel vino, con il suo Corpo e il suo Sangue, per opera dello Spirito Santo.
Voler essere suoi discepoli significa allora seguirlo in questo cammino, con la consapevolezza della nostra miseria per giungere alla piena comunione con Dio e i fratelli.
Quale sensazione non hanno provato gli apostoli nel sentire Gesù che dice loro: « Figlioli, ancora un poco sono con voi … Dove vado io, voi non potete venire », essi che avevano scommesso la loro vita nel seguirlo, pensando ad attese inerenti l’esistenza terrena?
All’annunzio dell’assenza del maestro sarà seguita in loro la sensazione dell’abbandono. Per questo Gesù continua dicendo: « Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me »(Gv 14,1). Gesù chiede loro di avere fede nel Padre e in lui e viceversa. Ma contem-poraneamente promette che essi saranno immessi nella intimità che vi è tra lui e il Padre e tale promessa deve far superare loro il turbamento causato dall’annunzio improvviso della sua assenza. E quando si sarebbe verificata questa promessa di intimità? Bisognava aspettare la fine dei tempi per la sua realizzazione o subito dopo la morte? Come vivere nell’oggi l’efficacia della promessa di Gesù?
« Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto prodigi »: è l’invito festoso che apre oggi la liturgia. Sappiamo bene quali sono questi prodigi che solo Dio ha potuto fare e per i quali dobbiamo rallegrarci: sono la liberazione vera, cioè dal peccato, la rigenerazione a figli di adozione, la chiamata all’eredità eterna. Cantiamo, quindi, un canto nuovo perché siamo divenuti « primizie di umanità nuova », quella che nasce dallo Spirito ed è edificata « in sacerdozio regale, popolo santo, tempio della gloria di Dio ». Non è un sogno e non sono vaghe parole. Lo avvertiamo in proporzione della nostra fede. Questa deve poi maturare in opere di cui la più importante è l’amore. In un’orazione la Chiesa domanda di sapere accogliere « come statuto della vita il comandamento della carità ». E’ tutto qui, ma è il segno che siamo portatori efficaci e credibili di un’altra umanità.
Prima Lettura: At 6,1-7.
Anche nella Chiesa primitiva sorgono screzi e dissapori. Non dobbiamo idealizzarla. Là dove ci sono degli uomini, ci sono limiti e imperfezioni. La ragione qui è il disservizio delle mense, e quindi della carità che si manifesta con l’« assistenza quotidiana ». Gli apostoli provvedono ma non in qualche modo, bensì scegliendo « sette uomini di buona reputazione, ripieni di Spirito e di sapienza ». Queste tre caratteristiche sono esemplari: la reputazione buona, la pienezza dello Spirito Santo, la saggezza. Diversamente non si può presiedere , si tratti pure del servizio delle mense. Ci fanno riflettere anche le parole degli apostoli: « Noi ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola » che sono sentiti come più propriamente ed essenzialmente un ministero apostolico. Se questo fosse trascurato, essi sarebbe infedeli alla missione. Neppure la carità ci potrebbe più essere, alla fine. Sarebbe grave se questo senso del primato della preghiera e della predicazione venisse meno e ci si occupasse d’altro o di ciò che altri nella comunità cristiana più convenientemente dovrebbero fare. Non si tratta di mettere in antitesi servizio « alle mense » e preghiera e predicazione, ma di articolarli in un giusto rapporto.
Seconda Lettura: 1 Pt 2,4-9.
San Pietro, rivolgendosi ad una comunità che vive l’assenza corporea di Gesù, dice :« Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo cre-dete in lui » (1 Pt 1,8). Essi sono stati aggregati attraverso il Battesimo a Cristo e formano in lui, « pietra d’angolo », un tempio, mentre per coloro non credono, Gesù è « pietra di scandalo » perché essi « non obbediscono alla Parola », cioè non credono al Vangelo. La fede è credere nella Parola di Dio e la vita cristiana è sottomettersi ad essa.
La Parola che ci raggiunge tramite le Scritture e soprattutto con Gesù, Parola fatta carne, suscita in noi la fede e da questo rapporto con la Parola e con Cristo sgorga il ministero della Chiesa che continua l’opera del suo Signore. Gli Apostoli affrontano la crisi organizzativa della comunità stabilendo delle priorità: « Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio … Noi, invece, ci dedichiamo alla preghiera e al servizio della Parola »( At 6,2-4).
Oggi si parla, spesso anche a sproposito, di « laici » e di « laicato». Va bene, se si conserva viva la consapevolezza che un cristiano, prete o no, è un consacrato. Tutti i credenti formano « un sacerdozio santo ». Tutti, « quali pietre vive », sono costituiti « come edificio spirituale », così da potere offrire « sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo ». Questi sacrifici spirituali sono la nostra vita vissuta in grazia, le nostre opere animate dallo Spirito Santo. Questo è possibile se ci uniamo nella Eucaristia al sacrificio offerto da Cristo sulla croce.
Siamo un « edificio spirituale »: non varrebbe nulla una bella chiesa di pietre, se a formarla non fossimo noi con la nostra fede e la nostra carità. La chiesa di pietre è solo un segno e un aiuto: è in noi, nella comuni-tà cristiana, che Dio dev’essere presente. Siamo noi chiamati « stirpe eletta, nazione santa, popolo di Dio », luogo della proclamazione del Vangelo, cioè delle opere della salvezza. E’ come dire che i cristiani rigettano tutto quanto è contrario alla santità, ogni forma di peccato.
In questo senso essi sono separati dal mondo, consacrati a Dio, destinati a collaborare alla redenzione del mondo e, in questo senso, a essere sacerdoti.
Vangelo: 14,1-12.
Non vediamo in modo sensibile il Signore, ma non per questo egli è lontano. Anzi, proprio perché asceso al cielo, alla destra del Padre, può essere presente, e lo è di fatto soprattutto nell’Eucaristia, dove non si trova il Corpo morto di Gesù, ma Gesù vivo, nell’atto di donarsi al Padre e a noi, e quindi nell’atto del suo sacrificio, che è principio di risurrezione e di vita.
Non deve mai mancarci la fiducia. Risentiamo la sua esortazione: « Non sia turbato il vostro cuore. Vado a prepararvi un posto. Verrò di nuovo e vi prenderò con me ». Su questa promessa di Gesù poggia tutta la nostra sicurezza. La morte non sarà il tragico crollo di tutte le speranze, ma la venuta di Cristo a prenderci per portarci a vivere eternamente con lui e con il Padre. Non è meraviglioso tutto questo, in mezzo alle difficoltà che ci assalgono ogni giorno? Quello che importa secondo Gesù è « avere fede» nel Padre e in lui.