





i veri tesori da accumulare per il cielo.
4 Agosto – 18a Domenica del Tempo Ordinario.
I VERI TESORI.
La ricchezza, tema attuale anche nel nostro tempo, la si può considera in varia maniera: o come desiderio di possedere, o come una realtà da cui si vorrebbe essere baciati, o come preoccupazione di ciò che si vorrebbe difendere, o come sogno che non è possibile realizzare non avendo, a volte, neanche un lavoro. Con il denaro, almeno nella nostra società occidentale, si pensa di poter avere accesso a tutto, e non solo alle cose materiali.
Oltre che le case, il successo, la salute ecc. si pensa anche che è possibile comprare le persone. La proprietà (siano essi beni o denaro), da mezzo materiale, garanzia di sussistenza per la vita, la si considera, da parte di tanti, come idolo, da realizzare a tutti i costi e la si idolatra fino a diventare « avarizia insaziabile » (Col 3,5).
Davanti al benessere si assume, spesse volte, un atteggiamento da schiavi e la nostra società ci spinge verso un consumismo sfrenato, per cui il possesso delle cose diventa segno di realizzazione personale o di promozione sociale, uno status symbol. Oggi, la Parola di Dio ci chiama ad un confronto della nostra vita con essa e ci sollecita ad una presa di coscienza riguardo al nostro rapporto con la ricchezza.
Dove sta la vita sapiente?
Nella prima lettura, dal libro del Qoèlet, ci viene fornita la consapevolezza che dobbiamo avere della transitorietà delle cose umane e materiali.
La vera sapienza ci porta ad esaminare le cose spirituali e ci invita a riconoscere quello che davvero conta nella vita, considerando tutto, ricchezza, onori, successo, benessere, fatiche e preoccupazioni del cuore e affanni, come vanità. La sapienza che viene dall’alto ci invita a ricercare una felicità duratura, un bene veramente prezioso per il nostro cuore. Siamo esortati a considerare le cose che concretamente possediamo alla luce della Parola di Dio e in relazione con il Signore.
Il credente deve, allora, valutare i beni e ciò che si può avere nella vita, anche se raggiunti con fatica, alla luce della fede e della rivelazione di Dio. Gesù, poi, nel Vangelo ci insegna a diffidare della ricchezza, soprattutto quando si ricerca o la si ritiene con cupidigia e avarizia: perché la vita non dipende dall’abbondanza dei beni che si possiedono.
Gesù, attraverso la parabola del ricco possidente, i cui campi avevano dato un abbondante raccolto, e che aveva fatto un programma di vita dicendo a stesso: riposati, mangia, bevi e datti alla gioia, senza fare i conti con la morte che lo avrebbe raggiunto nella notte, ci insegna che si è stolti come quell’uomo perché « si accumulano ricchezze per sé e non ci si arricchisce davanti a Dio».
Gesù considera stoltezza porre la propria felicità nelle cose. Egli non condanna i beni in quanto tali, ma averli ridotti a meta del proprio vivere e unico scopo per poter avere gioia e felicità. Aver ridotto i beni e le ricchezze ad idolo allontana da Dio: nel Vangelo l’esperienza dei ricchi, come Zaccheo, Matteo, il giovane ricco, mostra come essi sono lontani da Dio, perché sono concentrati sui loro conti e non si accorgono di Gesù se non quando li chiama ed entra nella loro vita, donando loro la gioia dell’incontro con la salvezza. Quando Gesù viene accolto libera dalla schiavitù della ricchezza e dei beni. Matteo lascia il banco delle imposte, Zaccheo rimborsa coloro che erano stati da lui defraudati. Nella parabola dell’amministratore infedele esorta a farsi degli amici con la iniqua ricchezza attraverso l’esercizio delle opere di carità. Ma ciò che è importante per Gesù è aver incontrato lui, averlo riconosciuto come Unico Bene per la propria esistenza, essersi affidati a Lui e alla sua parola.
Accumulare tesori per il cielo.
La ricchezza della fede, riconoscere la signoria di Cristo nella propria vita, lasciarsi guidare dal sua Parola, è certamente per il credente il ricercare la vera ricchezza. Questo lo impegna come dice san Paolo a perseguire le cose di lassù in cui si trova il proprio patrimonio.
« Sembrerebbe consolatorio ammettere che nella fede tutti siamo ricchi e dunque appagati anche quando, di fatto, viviamo in condizioni precarie di vita, siamo perseguitati dai debiti e dai mutui, condannati a spendere prima ancora di aver guadagnato, dovendo confidare in rate e cambiali » (Messale delle Domeniche e feste, Elle di ci,Ed 2013). Con il suo insegnamento Gesù non vuole togliere dall’uomo il rispetto per le sue esigenze, i suoi bisogni, le sue necessità, perché a chi lo ascolta egli non rivolge solo le sue parole, ma si prende cura delle sofferenze e delle necessità di tutti gli uomini.
E nelle Beatitudini in cui proclama beati i poveri in spirito non giustifica la miseria, né desidera che l’uomo viva di stenti. Dio, se ha dato all’uomo di trarre dal suolo il nutrimento, non vuole che per l’egoismo di alcuni altri muoiano di fame o abbiano a soffrire. Beato, allora, è chi davanti a Dio sa riconoscersi povero, distaccato dai beni di fortuna o meritatamente guadagnati, e si affida al suo amore di Padre. E’ povero, ma ricco di Dio, colui che sa spogliarsi di tutto e sa vivere in comunione con i fratelli, condividendo con essi tutto quello di cui si dispone, come Gesù che da ricco che era divenne povero per arricchirci della sua ricchezza divina, si è abbassato fino alla morte per elevarci alla sua gloria e alla dignità divina. Spogliarsi, allora, delle proprie ambizioni, della propria superbia, del desiderio di predominio sugli altri, della cupidigia e dell’avarizia, dell’attaccamento e possesso dei beni materiali significa ottenere più facilmente la vita eterna.
Prima Lettura: Qo1,2;2,21-23.
Le cose terrene sono inconsistenti, sfumano in un attimo, ed è vano l’affidarvisi. Ogni realtà è intrisa di inquietudine e di affanno. Il messaggio di questa pagina biblica è sempre attuale, di fronte alla tentazione di appoggiarci alle creature, di affannarci vanamente, credendo di trovare sostegno in cose che in realtà sono destinate a scomparire. Quest’esperienza è preziosa, non perché ci deve portare all’impigrimento, all’accidia o al pessimismo desolato e scettico, ma perché sgombra il cuore e lo induce ad affidarsi a Colui che non passa, che resiste nella mutevolezza delle vicende delle creature terrene; in una parola: ad affidarsi a Dio con la povertà e la libertà del cuore.
Seconda Lettura: Col 3,1-5.9-11.
Secondo san Paolo siamo già partecipi della risurrezione. E’ vero che questo non è ancora palese, che si trova ancora nascosto. Ma è già realtà, che attende d’essere manifestata nella gloria. Intanto tutta la nostra attenzione dev’essere oltre questa terra e il suo orizzonte: la nostra condotta deve assumere il modello e il principio da Gesù risorto, nella mortificazione di tutto quello che è « terreno », e Paolo per terreno intende i vari aspetti del peccato, quello che è tipico « del’uomo vecchio », di cui si è ormai spogliati. Dunque ciò che vale veramente e assolutamente non sta fuori, ma dentro di noi: nel mondo interiore, dove opera e si fa sentire il mondo della risurrezione. Quello che è decisivo è la scoperta di questo mondo, la sua esperienza il suo gusto. Il resto passa in secondo ordine. La vita cristiana è un’attesa e un anticipo di quella eterna.
Vangelo: Lc 12,13-21.
Stolto e illuso è il ricco che affida la propria riuscita e e soddisfazione alle ricchezze, dimenticandone l’intima instabilità e insicurezza, la radicale vanità. Egli credeva che quel che importava fosse accumulare tesori terreni per sé, e dimenticava che la ricchezza che vale e che resiste è quella che si acquista e si accresce davanti a Dio.
C’è gente che sembra ricca, ed è nella miseria estrema; c’è gente che al giudizio del mondo è povera, ma possiede la vera ricchezza. La grazia, la santità, le opere di carità sono la ricchezza che resiste e non è soggetta alla volubilità e all’inconsistenza delle cose del mondo. Si tratta di essere poveri secondo il Vangelo.
La paternità di Dio:la preghiera del Padre nostro.
28 Luglio – 17a Domenica del Tempo Ordinario.
Gesù ci insegna a pregare il Padre nostro.
La parola di Dio, oggi, ci invita a riflettere sulla preghiera. Abramo, padre nella fede del popolo ebreo e nostro, ci viene presentato come colui che dialoga con Dio a tu per tu e che chiede a Lui con insistenza di preservare Sodoma dalla distruzione. Dio, come leggiamo nel salmo responsoriale, non rimane insensibile alle nostre suppliche, ma interviene in nostro aiuto, perché grande e per sempre è il suo amore e la sua fedeltà attua le sue promesse verso le creature che lo invocano. Il Vangelo, infine, ci presenta Gesù come Maestro di preghiera.
Gesù prega e invita a pregare.
Gesù, prega il Padre celeste nel silenzio della notte, in luoghi deserti, prega nel Getsemani, ormai vicino alla morte. La sua preghiera, il suo colloquio con il Padre, nasce dalla profonda conoscenza e unione inscindibile che Egli ha con Lui. Gesù nella sua preghiera porta le suppliche di tutti gli uomini, le fatiche della missione, il destino di un popolo.
Una preghiera, quella di Gesù, certo, ad un livello elevato, non facilmente raggiungibile da noi. Abramo e Gesù ci vengono presentati come modello dell’ adulto nella fede e nel rapporto con il Signore; dell’uomo maturo che cerca il Signore in una preghiera carica di responsabilità che ha assunto di fronte al popolo, per intercedere: Abramo per la sorte di Sodomia e Cristo per la salvezza dell’umanità, davanti a Dio.
Abramo, che ardisce più volte invocare il Signore per il destino di Sodoma e Gomorra, e come fa Gesù, ci insegnano ad affidare al Signore le nostre suppliche cariche di domande sul piano di Dio per gli uomini.
Abramo intercede per quel popolo, che Dio vuole distruggere a causa dei suoi peccati, sentendosi coinvolto nella vicenda di quelle città: la preghiera è anche un rivolgersi a Dio a favore di tutta l’umanità sentendosi solidale con essa nel suo destino di salvezza o di perdizione. Anche Gesù si fa compagno e solidale con l’uomo e lo accompagna nella sua crescita spirituale suggerendogli le parole che lo avvicinano a Dio, per un dialogo autentico con Lui.
Gesù insegna il Padre nostro.
I discepoli un giorno chiedono a Gesù che insegni loro a pregare, così come Giovanni, il Battista, aveva fatto con i suoi. Gesù, allora, inventa per loro e per tutti coloro che saranno i suoi seguaci la bella preghiera del Padre nostro, in cui racchiude tutta la sua maniera di dialogare con il Padre celeste e in cui ci insegna a chiedere a Dio le cose che sono fondamentali nel nostro rapporto con Lui e con i fratelli.
I cristiani hanno usato questa formula, che anche noi attualmente usiamo, fin dai primissimi tempi del cristianesimo.
Padre. La parola Padre. Tra tutte le parole che si sarebbero potute usare per indicare Dio (signore, padrone, creatore, onnipotente…) Gesù ha scelto la parola « padre », che è la più vicina per farci comprendere il profondo mistero di Dio. Se un padre è colui che dona la vita a un figlio, allora, Gesù ci ha insegnato che Dio ci ha dato la vita, la quale è un dono di un padre e di una madre, ma anche di Dio.
Come un padre è vicino al figlio per nutrirlo, aiutarlo, crescerlo bene, e, cresciuto che è, lo rispetta nella sua libertà continuando a volergli bene e a dargli una mano nelle necessità, così fa Dio con l’uomo. Per nostro amore Dio Padre sa trarre fuori il bene anche dal male e dimostra la sua pazienza paterna fino all’inverosimile. Nella parabola del Figlio prodigo Gesù descrive l’atteggiamento del Padre celeste verso l’uomo, che abbandona la casa paterna e si allontana dal suo amore, raggiungendo un alto grado di affetto paterno che sconvolge ogni logica: lo aspetta che ritorni con pazienza e, quando lo può riabbracciare, fa una gran festa per averlo riavuto sano e salvo.
Sia santificato il tuo nome. Se il « nome » per gli ebrei indica la persona che lo porta, significa che tutti lo riconosciamo come Dio. Viene santificato il suo nome, se gli uomini accolgono in loro il suo regno, che è il tempo in cui Dio vuole essere nostro Padre, poiché ci chiama ad accettarlo come Padre e ad accoglierci l’un l’altro come fratelli. Viene anche santificato il suo nome se i figli fanno la sua volontà.
Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, cioè il pane necessario per vivere. Se il cristiano lavora, si occupa del domani, non si preoccupa : se produrrà il pane e ogni cosa necessaria alla sua vita, sa che dovrà essere al servizio di chi ha meno talento, possibilità e fortuna.
Perdona a noi i nostri peccati perché anche noi dobbiamo perdonare ad ogni nostro debitore. Verso colui che ci ha offeso o fatto del male, Gesù ci insegna che dobbiamo esercitare il perdono e l’amore, condizione per poter ottenere perdono e misericordia da Dio Padre, quando al termine della vita ci incontreremo con lui.
E non abbandonarci alla tentazione ma liberaci dal male. I cristiani chiedono a Dio Padre di dar loro l’aiuto per vincere il male e non soccombervi. In queste parole della preghiera del Signore c’è semplicità, concretezza e tutto ciò che è necessario chiedere al Padre celeste con la confidenza filiale e totale in Lui. Gesù ci invita anche ad una preghiera incessante, fiduciosa, che non si stanca, poiché Dio è Padre sempre disponibile ad ascoltarci. Egli vuole il bene dei suoi figli e la nostra gioia.
Prima lettura: Gn 18, 20-32.
La pazienza di Dio, il suo ascolto pieno di comprensione, la sua disponilità a « cedere » alle richieste dell’uomo: ecco quanto appare dall’insistente e ardimentosa preghiera di Abramo, umile e coraggioso insieme. Solo che ad un certo punto la richiesta di Abramo termina, e allora avviene il castigo: neppure dieci sono i giusti per i quali Dio risparmierebbe la sua condanna. Apprendiamo da questo brano a osare nella preghiera, ad affidarci alla longanimità di Dio. Ma troviamo anche un’altra idea: i giusti risparmiano i peccatori. Questo avviene quando anche da un solo giusto, Cristo Gesù, - non da dieci - saranno espiati e perdonati tutti i peccati del mondo.
Seconda lettura: Col 2,12-14.
I nostri peccati sono stati perdonati sulla croce di Gesù. Il documento che ci condannava vi è stato appeso e annullato, dice san Paolo. Da morti che eravamo, siamo stati risorti con lui. Mediante il Battesimo si sono come ripetuti per noi e in noi i decisivi misteri del Signore, gli avvenimenti della salvezza: la sepoltura e la risurrezione. Un breve rito, con tanta grazia ed efficacia. Siamo chiamati a tornare spesso al Battesimo, che ha avuto per noi così grande virtù, contro il rischio di dimenticarcene e quasi di banalizzare quell’avvenimento determinante per la nostra esistenza adesso, nel tempo, e poi per l’intera eternità.
Vangelo: Lc 11,1-13.
Gesù è il nostro maestro di preghiera. Che cosa dobbiamo chiedere ce lo ha insegnato nel « Padre nostro »: la sua glorificazione, la venuta del suo regno; il compimento del suo disegno, il pane di ogni giorno, il perdono dei peccati, la liberazione dal Male. Non basta però chiedere: è necessaria la perseveranza, quasi importuna, che si affida al cuore di Dio, più tenero e accogliente del cuore di un padre. Dobbiamo pregare senza timore, con assoluto abbandono. La questione decisiva è quella di comprendere la paternità di Dio. Da lì deriva tutto il tono e il clima della nostra vita.
Ascolto e contemplazione del Signore
21 Luglio – 16a Domenica del Tempo Ordinario.
Ascolto e contemplazione del Signore.
La Parola di Dio di questa Domenica ci invita a comprendere l’amicizia e l’accoglienza: Abramo ospita i tre pellegrini nella sua tenda; Marta e Maria esprimono l’amicizia a Gesù nella loro casa. L’importanza dell’ascolto della Parola di Gesù si comprende nel contesto della familiarità con la persona di Gesù. Nello stare insieme a colui che parla e nel sostare con gioia alla sua presenza, nell’ intimità del dialogo, si realizza un ascolto fecondo. Fare spazio all’amico, all’ospite nella pace e nel silenzio del proprio cuore significa entrare in sintonia di sentimenti, cogliere il senso profondo di ciò che l’amico dice. E’ questo l’atteggiamento di Maria che siede davanti a Gesù ad ascoltarlo, mentre Marta, indaffarata e presa dai mille servizi, a detta di Gesù, non sceglie la parte migliore. Gesù, certo, pur riconoscendo il primato dell’ ascolto non vuole porre in opposizione la vita contemplativa a quella attiva del servizio, vuole solo portarci a considerare entrambe le esperienze importanti per la nostra vita di fede.
Marta e Maria.
La casa di Lazzaro, di Marta e Maria a Betania era sempre aperta per Gesù quando si trovava a Gerusalemme. L’arrivo, forse improvviso di Gesù, pone Marta in agitazione nel dover preparare tutto ciò che era necessario per rendere il soggiorno di tanto gradito ospite il più accogliente possibile. In tutto questo da farsi, Marta, nel vedere la sorella Maria, seduta estasiata ai piedi di Gesù ad ascoltarlo, innervosita, fattasi avanti, disse: « Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti ». E Gesù, in maniera dolce, affettuosa e pacata, le si rivolge, dicendo: « Marta, tu ti agiti per molte cose ». Sembra quasi dirle Gesù che per lui non è tanto importante il da farsi, stirare a lucido tutto, preparare la cena, cose tutte che hanno il loro valore e sono segno di amicizia, ma che la cosa a cui tiene veramente è accoglierlo interiormente, cercando di conoscerlo, di capirlo e accettare il suo insegnamento con la mente e il cuore.
Tutto questo è possibile farlo ponendosi in atteggiamento profondo di ascolto della sua Parola. Tutto il resto è secondario. Gesù, allora, vuol dire a tutti i suoi discepoli, di ieri e di oggi, che questo è il modo giusto per accoglierlo, non solo nella propria casa, come Marta e Maria, ma soprattutto nella propria vita, ponendosi con attenzione e amore ad ascoltare la sua parola.. Ma il Signore sa bene, per averlo detto di sé, che a sua volta, dopo averlo ascoltato, bisogna subito impegnarsi concretamente nel servizio degli altri e nella carità operosa.
Questo insegnamento, valido per tutti i cristiani, di ogni luogo e tempO è la cosa essenziale : ascoltare la parola del Signore, ascoltarla con la mente e il cuore, per essere come Gesù, che continua, qui ed oggi, a vivere e realizzare per mezzo nostro la sua presenza, con la sua parola e il suo servizio.
Marta
Marta con sollecitudine si pone a servire il suo ospite e si preoccupa della sua persona. Gesù stesso, prendendosi cura della folla, che sfama moltiplicando il pane, esprime l’attenzione e il servizio agli uomini.
L’amore e la sollecitudine per il fratello chiede anche la condivisione dei beni concreti di cui egli ha bisogno. Marta, che esprime il suo amore per Gesù nel servizio, quasi gli domanda le sue attenzioni e avanza la pretesa di essere gratificata per quello che fa. La pretesa che Dio ci ascolti e ci accordi quello che gli chiediamo condiziona il nostro rapporto con lui e la nostra preghiera: chiediamo al Signore che consideri il nostro lavoro, il nostro impegno e guardi ciò che stiamo facendo per lui o per i fratelli. Come lo fu per Marta anche noi spesso facciamo esperienza dei nostri limiti e nella fatica ci rivolgiamo al Signore affidangli il nostro sfogo e nelle sue mani deponiamo la nostra debolezza: « Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciato sola a servire ?». Marta affida al Signore la sua fatica nella certezza che egli l’accoglie, nutrendo profonda fiducia in lui. Nella nostra preghiera al Signore non dobbiamo rivolgerci a lui solo per affidargli i nostri guai, ma saper dire anche noi : « Parlaci, Signore, perché i tuoi servi ti ascoltano ».
Maria.
Maria si preoccupa solo di ascoltare il Signore e, stando seduta ai piedi di Gesù, gli esprime la sua cordialità, la sua accoglienza, la sua disponibilità. Saper ricevere presuppone la capacità di uscire dalla logica del sentirsi in debito per quello che si riceve. Il Signore ci ama gratuitamente e ci chiede solo di accoglierlo. Che cosa potrebbe d’altronde dare l’uomo a Dio in cambio del suo amore, della sua salvezza? Marta sa che non può offrire a Gesù nulla che sia più importante di quello che lei può ricevere da lui: così si mette in ascolto della sua parola, compiendo un gesto che Gesù apprezza. Da Maria possiamo imparare a vivere la giusta relazione con Gesù: porci in autentico ascolto della parola di Gesù, realizzandola di conseguenza nella nostra vita, cosicché l’ascolto non diventi solo un sentire con le orecchie, ma attuazione del messaggio che si riceve da Gesù.
Prima Lettura : Gn 18,1-10.
Negli ospiti che Abramo accoglie con animo aperto e premuroso si rivela e si presenta il Signore. La generosità del patriarca è premiata con la promessa di un figlio. A chi bussa alla nostra porta per chiedere un favore siamo chiamati a riservare attenzione, ascolto e finezza, mentre la tentazione è di mandarlo via subito come uno scocciatore.
Seconda Lettura : Col 1,24-28.
« Lieto delle sofferenze » si dichiara Paolo: è un paradosso. Solo che egli vede le sofferenze della sua vita apostolica come una continuazione della passione di Cristo, da cui il mondo è stato salvato e che rappresenta la sostanza del Vangelo che egli predica. Egli dice di soffrire per la Chiesa, della quale si proclama ministro, cioè servitore, secondo la missione che Dio gli ha affidato. Ecco il programma: non dominare nella Chiesa, imponendo le nostre vedute, ma servire la Chiesa, cioè servire Gesù Cristo e predicare il suo mistero. Non dobbiamo infatti predicare noi stessi e dedicarci alle molte imprese; non dobbiamo pretendere di avere una vita serena, se almeno veramente vogliamo essere al servizio di Cristo, che ci ha redento con la croce.
Vangelo: Lc 10, 38-42.
Gesù è accolto con premurosa e fine ospitalità da Maria e Marta. Tale premura ci dice l’amore per Cristo fatto di opere e ci insegna come vivere l’ospitalità cristiana, che è un appello a vincere la nostra egoistica pigrizia. Maria però ha capito soprattutto il valore dell’ospite, e allora si dedica all’ascolto della sua parola. La sua non è una perdita di tempo : Gesù in presenza conta più di ogni cosa. E il segno della più gradita ospitalità Cristo stesso lo trova nel fatto che ci si metta alla mensa della sua parola, dove è lui che offre il cibo che più di tutti gli altri vale.
L'Amore a Dio e a Prossimo: compendio della Legge.
14 Luglio – 15a Domenica del Tempo Ordinario.
Gesù ci invita ad essere prossimo per ogni uomo.
Mentre Gesù va verso Gerusalemme predica il Regno di Dio e, parlando alla gente, annuncia il suo Vangelo: la lieta notizia che la salvezza è vicina. Egli dà inizio al tempo del Messia, annunciato dai profeti, tempo in cui Dio trasformerà « il cuore di pietra, ostinato nel male, con un cuore vero, di carne » obbediente a Dio. La parola che Egli annunzia dà all’uomo una nuova vitalità se accolta nel cuore e messa in pratica nella sua concretezza.
Al dottore della Legge che chiede a Gesù cosa deve fare per avere la vita eterna, egli dice: « Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi? ». Quello gli rispose:« Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il prossimo tuo come te stesso ». E Gesù, riconoscendo che aveva risposto bene, aggiunse: « Fa’ questo e vivrai ».
Così Gesù formula un comandamento rivoluzionario, nuovo, che ha due direzioni: verso Dio che bisogna amare, rispondendo al suo amore, e verso il prossimo, in cui ha impresso la sua immagine e somiglianza, da amare come se stessi.
Se sulla prima parte del comandamento anche noi possiamo trovarci d’accordo come il dottore della legge, sulla seconda parte, che è uguale alla prima, spesso, anche noi ci domandiamo : « Chi è il nostro prossimo?».
Forse dobbiamo constatare che con la misura con cui amiamo veramente Dio, amiamo anche il prossimo e noi; e se amiamo poco Dio, amiamo anche poco il prossimo e noi stessi.
Il dottore della Legge mette alla prova Gesù.
Se nella Bibbia è scritto: « Non mantenere odio contro un fratello… Non vendicatevi contro i vostri connazionali. Ciascuno di voi deve amare il suo prossimo come se stesso » (Lv19,17ss.), i dottori della Legge interpretavano tali comandamenti insegnando che il « prossimo erano i fratelli, i connazionali » ma gli infedeli, gli stranieri non dovevano essere considerati “prossimo “. Gesù, allora, viene messo alla prova, per far vedere a tutti, se Egli interpreta la Bibbia come i dottori della legge o se dà una spiegazione diversa nel suo insegnamento. Gesù accetta la sfida e rovescia la tradizionale interpretazione della Scrittura affermando che Dio comanda di amare tutti, anche gli estranei e i nemici. Gesù con una parabola risponde al dottore della Legge insegnando che, come il buon Samaritano, deve comportarsi chiunque vuole entrare nel Regno dei cieli.
Il buon Samaritano.
La strada che scendeva da Gerusalemme a Gerico era una strada tortuosa, solitaria, incavata tra rocce e quindi luogo di facili e pericolosi incontri con ladri e briganti, specie per un viandante solitario, il quale poteva essere derubato, malmenato e lasciato mezzo morto ai margini della strada, come l’uomo di cui parla Gesù nella parabola.
I passanti, un sacerdote e un levita, per paura di contaminarsi, pur vedendolo in quello stato, passano oltre senza fermarsi. Solo un passante, della Samaria, considerato straniero e nemico dai Giudei, vedendo il ferito, si ferma , si fa prossimo, gli si fa vicino interessandosi di lui, lo aiuta sollevandolo, cura le sue ferite con vino e olio, e, portandolo in un albergo, spende il suo denaro perché venga curato.
Alla fine della parabola Gesù domanda al dottore della Legge chi dei tre passanti sia stato prossimo a quell’uomo malcapitato. Alla risposta del dottore: « Chi ha avuto compassione di lui », Gesù gli dice: « Va’ e anche tu fa’ così ».
Gesù invita tutti i suoi discepoli e i cristiani di tutti i tempi a farsi prossimo al debole, andargli vicino, interessarsi delle sue necessità, fin anche ad annullare la distanza provocata da forti disunioni o anche da inimicizie.
Per Cristo « amare il prossimo » vuol dire farsi vicino non solo a chi ti è vicino per gli affetti, ma anche a chi è lontano e ha bisogno del tuo aiuto nelle sue necessità, nelle difficoltà, perché tutti siamo creature di Dio e in Cristo siamo fratelli. In quanto partecipiamo della stessa opera salvifica, tutti siamo chiamati a diventare figli di Dio. Gesù è venuto a portarci una nuova identità umana in ogni uomo, che il peccato, l’odio, l’egoismo, la superbia, l’invidia, le divisioni deturpano, qualunque sia il colore della nostra pelle, la razza, l’età ecc.
Cristo è l’immagine del Buon Samaritano.
Attraverso Cristo, che è l’incarnazione e l’icona vivente del Buon Samaritano, Dio si è fatto prossimo all’uomo, si è chinato su di lui, che come quell’uomo è malmenato e derubato dei beni spirituali, morali e fisici da coloro che a vario titolo lo depredano. Gesù, l’Emmanuele, che si fa nostro compagno di viaggio, lui che da noi è considerato un estraneo, è venuto e ha pagato di persona per curare le nostre ferite, fasciarle e affidarci alla sua Chiesa, ai cui membri chiede di prendersi cura dei fratelli in difficoltà, e a cui promette una ricompensa, per quanto si spenderanno per il bene di essi, al suo ritorno.
Contemplando, allora, oggi, la figura e l’esempio di Gesù, il cristiano deve imparare a vivere un autentico servizio al prossimo. Nel voler incarnare il Vangelo nasce, nel credente in Gesù, la motivazione ad un impegno verso i fratelli, fatto di volontariato, di scelte concrete e di dono agli altri. Tale servizio per il discepolo di Gesù, se non vuole essere sterile attivismo, forse utile ad appagare la propria coscienza, deve essere radicato nella fede e nella preghiera.
Contemplando Gesù sofferente sulla croce, nel suo mistero di dolore per noi, il cristiano deve diventare capace di stare accanto alle sofferenze del prossimo e, per quanto è possibile, alleviarle.
La parabola, oltre ad invitarci alla sollecitudine caritatevole e al prodigarsi per i bisognosi, ci esorta ad accogliere l’Amore di Dio e a realizzarlo come ha fatto Gesù, imitandolo, per quanto ci è possibile, con la forza della fede, della grazia e della nostra buona volontà.
Prima Lettura: Dt 30,10-14.
La Parola di Dio è vicina all’uomo: essa accondiscende fino a lui. Più che per Israele, la condiscendenza della Sapienza divina e la vicinanza della Parola si attuerà per l’uomo quando il Verbo si farà carne e abiterà in mezzo a noi. Ma la prossimità della Parola di Dio non deve lasciarci incerti: è voce, è legge che va osservata, che induce alla conversione, al ritorno al Signore « con tutto il cuore e con tutta l’anima »: E infatti quando Gesù incomincerà la predicazione del Vangelo dirà: « Convertitevi ». Il Verbo si fa carne perché l’uomo sia intimamente trasformato.
Seconda Lettura: Col 1,15-20.
L’universo intero trova il suo sostegno in Gesù Cristo « primogenito della creazione »: ogni cosa è creata per mezzo di lui, e di tutte egli è il fine, la ragione. In particolare in lui trova consistenza la Chiesa: egli ne è il Capo. Ma tutte le cose sono riunite a Dio a causa e per mezzo del sacrificio di Cristo, del « sangue della sua croce ». Il grande avvenimento che interessa tutta l’umanità è la morte di Gesù in apparenza un fallimento; in realtà la salvezza è la riuscita del mondo. In particolare Cristo risorto è il Capo, l’esemplare, della Chiesa, che lo esprime e lo manifesta, lo rende presente nel mondo, come suo « corpo ». La Parola di questa lettura può farci aprire a stupendi orizzonti nella nostra vita quotidiana spesso avvolta da piccolezze, banalità, angustie meschine. Noi siamo i segni di immenso e insospettato amore, al centro di una stupenda vicenda di grazia che si concluderà nella gioia.
Vangelo: Lc 10,25-37.
Non importa tanto definire chi è il nostro prossimo; conta invece comportarsi da prossimo, e si comporta da prossimo chi introduce l’altro nel corso della propria vita, chi se ne fa carico con intimo e operoso amore. Questa è la compassione che vale. Il cristiano è uno che ha demolito gli steccati, le prevenzioni, che ha un cuore universale, e imita non il sacerdote o il levita che passano indifferenti, ma il Samaritano, l’uomo giudicato impuro e disprezzato. Del resto il vero Samaritano, che si accosta all’uomo ferito e lo salva, è Gesù stesso. Ogni atto di amore verso il prossimo è un proseguimento dell’opera di Gesù.
Ultimo aggiornamento (Sabato 13 Luglio 2013 19:20)
Il messaggio di Gesù affidato ai 72 discepoli
7 Luglio – 14a Domenica del Tempo Ordinario.
I discepoli portano a tutti il messaggio di Gesù.
Il Vangelo di Luca su cui oggi la Chiesa ci chiama a riflettere ci racconta un fatto di cui gli altri tre Vangeli non danno notizia. Durante il suo viaggio a Gerusalemme Gesù vuole avvicinare molte più persone di quante abbia già incontrato. Gesù compie allora uno sforzo di propaganda, che dovrà essere nel futuro un insegnamento e un modello per la sua Chiesa. Sceglie tra il grande numero dei suoi discepoli 72 persone, e le invia a due a due, come si usava allora, « in ogni città e luogo dove stava per recarsi ». I suoi inviati dovranno annunciare a tutti che « il regno di Dio è vicino ».
Luca intende evidenziare la portata universale della salvezza, offerta da Dio a tutti i popoli. Settantadue sono gli inviati, ad indicare la totalità dei popoli del mondo, secondo l’Antico Testamento; in questo numero è dunque simboleggiata l’estensione della missione a tutto il mondo e l’annuncio del Vangelo a tutti i popoli della Terra. Da Gerusalemme, sfavillante di gioia, la buona notizia raggiunge tutti i luoghi e ogni popolo.
Insegnamenti importanti per i discepoli e tutti i cristiani.
Ai discepoli che partono come suoi primi missionari, Gesù dà alcuni insegnamenti molto importanti anche per i cristiani di tutti i tempi. La gente a cui occorre portare il messaggio evangelico è moltissima, e i missionari saranno sempre pochi. Occorre dunque pregare Dio che mandi molti a portare la parola di Dio. L’impegno di annunciare il messaggio di Gesù porterà sofferenze, non darà successo e soddisfazione ( nel senso che il mondo dà a questi termini). I missionari di Gesù saranno come agnelli in mezzo ai lupi.
Colui che porta il messaggio di Gesù, porta la pace. La pace cristiana è la gioia e la felicità che scaturiscono dall’incontro con Dio. L’unica soddisfazione che i missionari di Gesù possiedono è che « i loro nomi sono scritti nei cieli »: cioè sono già concittadini di Dio, hanno un posto preparato nella casa del Padre.
Il messaggio di Gesù affidato a tutti i cristiani.
Possiamo constatare che molti cristiani accettano il messaggio di Gesù, ma non sentano il bisogno di portare questo messaggio alla gente. Si sono abituati a considerare questa missione come un compito dei preti, dei frati e delle suore. Quelli sono – secondo questa cattiva convinzione – gli « specialisti » nell’annunciare Gesù, lo fanno per « mestiere ». Il Concilio Vaticano II ha attribuito anche ai laici il compito missionario, rivalutando il senso della presenza cristiana nel mondo secolarizzato, nei luoghi di lavoro, per le strade, nelle città.
Fin dall’inizio del cristianesimo – è scritto nel Catechismo degli Adulti - gli apostoli insegnano che la missione è affidata al popolo di Dio nella sua globalità:« Voi siete il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua ammirabile luce », scrive l’apostolo Pietro.
Di fatto, al tempo delle origini, è vivissima in tutti i credenti la coscienza missionaria. In chiusura delle lettera ai Romani, viene ricordata una fitta schiera di collaboratori dell’apostolo Paolo nel servizio del Vangelo: sono uomini, donne, coniugi, intere famiglie. Il cristianesimo si diffonde velocemente sulle vie dell’impero romano soprattutto per l’impegno spontaneo dei credenti, da persona a persona. Urgente e imperiosa è l’esigenza di condividere con altri la propria fede. Nessuno si tira indietro. Un filosofo, Celso, pensando di screditare la nuova religione, osserva che tra i suoi divulgatori abbondano « cardatori di lana, calzolai, lavandai, gente senza istruzione e di maniere grossolane ». Sebbene i mezzi di trasporto e di comunicazione siano ancora primitivi, l’annuncio del Vangelo raggiunge in breve tempo i confini del mondo allora conosciuto.
Guardando alla comunità delle origini, la Chiesa oggi può ritrovare la coscienza della comune vocazione missionaria. La gioia del cristiano che porta la bella notizia nasce dalla consapevolezza di annunciare la salvezza di cui si è fatto esperienza. Ogni cristiano che ha fatto esperienza dell’incontro con Cristo trova il proprio « vanto » nell’annunciare il Crocifisso risorto, unica Parola-Persona che non cambia, unico salvatore che dona gioia vera.
Prima Lettura : Is 66,10-14;
Viene annunciata un’era nuova, di gioia e di consolazione: quella dell'esilio cessato e della liberazione. Non si tratta di un sogno, ma occorre credere che a condurre la storia d’Israele è Dio, il quale non è bloccato e condizionato da nessuna forza umana. La parola del profeta andava però oltre il traguardo della fine di un esilio. Egli presagiva la venuta del Messia, del Signore Gesù, il liberatore.
Seconda Lettura: Gal 6,14-18.
Il cristiano è una « nuova creatura ». Egli non si appoggia sui meriti che possono venire dall’osservanza della legge di Mosè. Non si vanta delle proprie virtù, ma della grazia, e perciò della passione del Signore assunta e rappresentata in lui. Il mondo quasi scompare, non conta: è crocifisso, così come il cristiano è un crocifisso a immagine di Gesù. E’ il paradosso: la riuscita del disegno di Dio passa attraverso la croce. Da essa proviene la pace di Dio e la misericordia. Si tratta anche per noi di portare « le stigmate di Gesù » nella vita: non tanto i segni fisici sensibili e dolorosi, ma i segni della fedeltà al Vangelo e delle opere compiute secondo la volontà di Dio.
Vangelo: Lc 10,1-12. 17-20.
I discepoli di Gesù sono inviati ad annunziare al mondo la consolazione, la pace. Il motivo di questo annuncio è che il Regno di Dio,
la redenzione,ormai è vicino. Ma occorre fare attenzione: il discepolo deve presentarsi povero, austero, fiducioso, affidato alla forza di Cristo che lo libera da ogni male, solo preoccupato della salvezza. D’altra parte lo stesso annunzio discrimina. Chi lo lasciasse cadere e lo rifiutasse incorrerebbe nella condanna, perché ha respinto l’offerta di grazia. Su di lui sarebbe imminente e peserebbe il giudizio di Dio. Il Vangelo è estremamente serio e impegnativo.