Conversione di Zaccheo nella gioia.
3 Novembre – 31a Domenica del Tempo ordinario.
Conversione di Zaccheo nella gioia.
La vita pubblica di Gesù è un lungo viaggio che egli compie verso Gerusalemme, dove affronterà la sofferenza, la morte in croce e la resurrezione. Prima di giungere a Gerusalemme Gesù passa per Gerico e incontra un uomo di nome Zaccheo, pubblicano e sovrintendente degli esattori. E’ un cittadino ricco, ma anche odiato dalla gente.. Dall’incontro con Gesù egli inizia la sua storia di conversione che non sarà solo spirituale, ma che si attuerà anche nella solidarietà verso i poveri e coloro che ha defraudato.
La parola di Dio, oggi, ci fa comprendere che Egli scommette sulla vita di tutti gli uomini, anche su coloro che non se ne sentono degni, convinto, come è, che in ogni uomo vi è una grande possibilità di bene.
Gesù arriva a Gerico e incontra Zaccheo.
Per i discepoli, come anche per coloro che lo conoscono, Zaccheo è un pubblicano, ritenuto per questo, come tutti i pubblicani, peccatore. E’ anche un uomo ricco. Dei ricchi Gesù aveva detto che è difficile per coloro che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio! E che è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno di Dio.
Ai discepoli che sconcertati gli chiedono: « Ma allora, chi si può salvare? » Gesù risponde dicendo che « Ciò che è impossibile agli uomini è possibile a Dio » (Lc 18,24-17). Ecco che sotto i loro occhi sta per compiersi il miracolo di quanto Dio possa realizzare nel cuore di quel peccatore.
Gesù, passando per le vie di Gerico, pur accalcato dalla folla, scorge Zaccheo che, forse per curiosità, per aver sentito parlare di lui, o perché spinto interiormente, essendo piccolo di statura,si è arrampica-to su un sicomoro per vederlo passare.
Gesù lo guarda e i loro occhi si incrociano. Zaccheo forse si aspetta uno sguardo severo, di duro rimprovero, così come solevano fare i profeti per richiamare i pubblici peccatori nel nome di Dio. No! Gesù, rivolgendogli la parola, gli dice: « Vieni giù, perché voglio entrare in casa tua ».
Il ricco Zaccheo è come il cammello che passa per cruna di un ago.
Zaccheo, alla richiesta di Gesù di essere ospite in casa sua, scende subito e con gioia lo accoglie in casa, lo invita a mensa. A tavola Gesù entra festosamente nel suo cuore e nella sua esistenza. Gli scribi e i farisei mormorano e pensano che Gesù più che essere dalla parte degli sfruttati sta dalla parte degli sfruttatori e dei peccatori. Ma non è Gesù che passa dalla parte di Zaccheo, è questi che passa dalla parte di Gesù, accogliendo il suo invito alla conversione e sperimentando così la misericordia di Gesù, che lo invita a ritornare nella casa del Padre. Davanti alla folla e ai discepoli stupiti si compie il miracolo di cui aveva parlato Gesù, cioè dell’impossibilità che un ricco si converta, come è impossibile che un cammello passi per la cruna di un ago. Ma Zaccheo si converte perché « nulla è impossibile a Dio ».
Così’ Gesù, come il pastore della parabola, lascia i novantanove giusti per andare in cerca della pecora che si è smarrita. E’ Gesù che ci cerca quando ci allontaniamo da lui. Anche oggi, si rinnova il prodigio della conversione, del ritorno a Dio e alla fede di tanti uomini, in cui difficilmente avremmo immaginato avvenisse.
Zaccheo vuole essere più che giusto.
In Zaccheo, capo dei pubblicani, avviene un cambiamento radicale nel modo di rapportarsi con il denaro, con i poveri, con coloro che ha defraudato. Nella tradizione ebraica, secondo la Legge, la mas-sima offerta a favore dei poveri era dare un quinto dei propri beni. mentre quando si trattava di furto la Legge imponeva la restituzione del doppio.
Zaccheo invece promette solennemente a Gesù che avrebbe dato ai poveri la metà e a chi fosse stato defraudato avrebbe restituito il quadruplo. Così, la carità di Zaccheo supera la giustizia e le prescrizioni della Legge. Dona a chi è nel bisogno senza elemosinare, generosamente.
La conversione deve implicare una verifica concreta del proprio cambiamento di vita, manifestando la propria novità di vita attraverso la solidarietà effettiva verso i poveri.
Prima Lettura: Sap 11,22-12,2.
Dio ama le creature; non le disprezza; esercita la sua potenza attraverso la compassione; in particolare verso l’uomo ha un atteggiamento di perdono. E’ paziente, non interviene implacabilmente subito a castigare, ma aspetta che il peccatore creda e si penta. E’ già presente nell’Antico Testamento un messaggio di perdono, e quindi un Vangelo che annunzia ed elargisce misericordia.
Seconda Lettura: 2Ts 1,11-2,2.
Dio ci ha chiamato alla salvezza; ma bisogna che la chiamata sia poi portata a compimento, e per questo è necessaria una continua grazia del Signore, che sostenga la nostra volontà, così facile ad affievolirsi e a deprimersi, e che la faccia maturare nelle opere.
E’ la ragione per la quale san Paolo accompagna con la preghiera la vita della sua comunità di Tessalonica.. Solo così si può essere preparati alla venuta del Signore, la quale però non deve agitare, né essere ritenuta cronologicamente imminente come qualcuno va dicendo. Certo il Signore può apparire in ogni momento, e appare effettivamente in ogni momento; ma non si tratta di fare noi calcoli ma di essere sempre pronti.
Vangelo : Lc 19,1-10.
Zaccheo è scorto da Gesù, chiamato, e richiesto di ospitalità. E’ un pubblicano, un uomo ritenuto non molto raccomandabile. La chiamata è subito conversione, impegno di una vita nuova, riparazione del male compiuto. E’ il miracolo di Cristo, che si fa ospite del peccatore, e lascia dire le critiche di chi non ha capito il mistero della misericordia, che è il mistero stesso di Dio. Zaccheo è salvato, e così in lui Cristo realizza la ragione della sua venuta: salvare chi è perduto, offrire il perdono a chi è in colpa. Per parte sua Zaccheo è inondato di gioia: non c’è nella sua vita gioia più intima, più grande, di quella di santire che il peccato è perdonato e che inizia l’amicizia con Cristo.
Commemorazione dei fedeli defunti.
2 Novembre – Commemorazione di tutti i fedeli defunti.
La preghiera e la comunione con i fratelli defunti.
Quando un padre, una madre, un familiare, un parente, un amico ci lascia definitivamente con la morte, al di là della sofferenza per la loro perdita, sappiamo che con il passar del tempo nulla cambia. Il vuoto lasciato rimane, perché nulla può restituirci le persone care, con loro affetti, gesti e sguardi d’amore, le loro tenerezza, la loro presenza vigile ecc. Spesso, davanti a morti premature o catastrofi naturali, rimangono i nostri interrogativi su questi eventi tristi e dolorosi. La domanda che sgorga dalle nostre labbra è: « Che senso ha un tale evento? ». La vita e la morte sono realtà davanti alle quali ogni giorno dobbiamo fare i conti.
Il mistero della morte illuminato dalla parola di Dio.
Davanti alla drammatica realtà della morte né le parole umane né le consolazioni che ci vengono offerte da parenti, amici o conoscenti sono sufficienti. Solo la Parola di Dio può darci una risposta che, pur non risolvendo il problema nella sua emotività, diede ai sapienti d’Israele il profondo convincimento che, oltre la morte, l’uomo deve attendere la salvezza che Dio dà. Il libro della Sapienza afferma con solennità: « Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio e nessun tormento le toccherà ». Questa certezza si fonda sulla fede in Jahvè, nella esperienza della fedeltà di Dio che non abbandona chi crede e spera in Lui.
E Isaia preannunzia le promesse di Dio, il quale « preparerà un banchetto per tutti i popoli ed eliminerà la morte per sempre… » e « farà nuove tutte le cose » (Ap ).
Per noi Cristiani, la risurrezione di Cristo, che non muore più e preannunzia la nostra risurrezione e la vita eterna che vivremo in Dio, testimonia che la morte non è l’esito finale della nostra esistenza, ma solo un passaggio. Paolo davanti alla realtà della morte esclama:« Dov’è o morte il tuo pungiglione ? Dov’è o morte la tua vittoria ?». Con la sua morte e risurrezione Gesù ha aperto il passaggio da questo mondo all'atro per tutti gli uomini, dando a tutti noi la possibilità di avere acces-so alla vita divina ed eterna in Dio.
Questa nostra fede non cancella né elimina gli aspetti misteriosi e dolorosi della morte, né la sofferenza del distacco dai cari che essa comporta, ma ci apre alla speranza e alla certezza che esiste una vita, un incontro per noi e per i nostri cari nella realtà dell’esistenza divina, con Dio e tra noi.
Dopo la morte si attua la vera nascita dell’uomo.
Secondo la Parola di Dio, per il cristiano, la morte è una nuova nascita: come l’uomo con la nascita viene espulso dal grembo per la vita terrena, così, attraverso la morte, egli viene espulso da questa vita terrena per una nuova vita, per una esistenza trasformata e misteriosa, che verrà vissuta in Dio. Questa nuova esistenza, che non è vissuta nel tempo e nello spazio, di cui non ne abbiamo esperienza, ci spaventa e incute timore. E’ il mondo di Dio con la sua pienezza di vita che darà piena soddisfazione all’uomo: nella risurrezione finale anche il nostro corpo, risorto, vi parteciperà senza più avvertire la sua dimensione corruttibile, ed esso non sarà più un limite nei rapporti con gli altri e con Dio.
La nostra vita non ci è tolta, ma trasformata. Il non morire sarebbe per l’uomo il non giungere mai alla sua piena realizzazione.
Nella morte cadono tutti i limiti della condizione terrena e si è liberi, in maniera definitiva, dalle nostre esperienze terrene, per ritrovare la nostra esistenza nella completa esperienza spirituale di Dio.
Per i credenti in Cristo, la nostra morte non è la fine, ma il fine con cui raggiungiamo la meta di una vita giunta nella sua pienezza. Il distacco dal mondo creato con la morte non è una disgrazia, ma una uscita dalla vita biologica e terrena, pur personale, per una esistenza che raggiunge la sua pienezza.
Con la celebrazione odierna celebriamo la nostra vita in Dio.
Dio realizza il suo progetto di vita e di beatitudine che ci promette rendendoci partecipi della sua divinità e della dimensione incantevole del suo amore: tutto ciò è dono gratuito di Dio, che ne dispone la modalità e i tempi. Tutto ciò che di bene, con la sua grazia e aiuto, noi siamo stati capaci di realizzare anche solo parzialmente, aprendoci al suo amore e all’amore verso gli altri, per la sua bontà, Dio lo porta a compimento, perché nulla è stato costruito invano, nessun gesto d’amore va perduto.
Tutto ciò che di bene nella vita terrena era provvisorio, davanti a lui che giudicherà la nostra esistenza, diventerà definitivo, e ciò avverrà quando egli dividerà le vite realizzate, per averlo riconosciuto e aiutato nei fratelli, da quelle fallite, perché non lo hanno né riconosciuto né amato negli altri.
La morte, che ci svela la provvisorietà dell’esistenza terrena in cui nulla è possibile vivere pienamente, ci apre una prospettiva in cui viene recuperato il bene compiuto per essere reintegrato nella dimensione infinita ed eterna di Dio. La preghiera per i nostri morti vuole impetrare da Dio che tutti coloro che sono stati a « Lui graditi », come dice San Paolo, per la sua bontà e purificati dalla sua misericordia, siano ammessi a contemplare il suo volto e a vivere nella piena comunione dei Santi, realtà a cui anche noi aspiriamo dopo questo esilio terreno.
Viviamo, quindi, questa commemorazione dei fratelli defunti non con la nostalgia di chi li pensa perduti per sempre, ma con la speranza di chi li crede viventi in Cristo, destinati alla risurrezione gloriosa con lui.
Oggi richiamiamo la morte nella luce della Pasqua di Cristo, della sua morte e della sua risurrezione, fondamento della nostra speranza. Oggi affidiamo i nostri fratelli defunti alla misericordia di Colui che è morto in croce per la remissione dei peccati e per la nostra riconciliazione al Padre. Ma questo ricordo dei morti deve essere anche ammonimento salutare per noi che ancora viviamo: la vita passa in fretta, e le opere buone vanno compiute adesso. Poi viene il giudizio di Dio e, secondo la nostra condotta, ci verrà dato il premio o il castigo.
Prima Lettura: Sap 3,1-9.
La morte dei giusti non è tragedia senza scampo, dissoluzione per sempre: Dio li sostiene, li fa entrare nella sua pace e nella vita immortale. Le loro sofferenze, irrise dagli increduli, cono una prova che li purifica e che, sopportata con speranza, sarà motivo di gloria. C’ è in questo della sapienza la speranza di quanti vivono e muoiono nel Signore.
Seconda Lettura : Ap 21,1-5.6.7.
Attraverso l’immagine del cielo e della terra nuovi, delle cose di prima che passano e delle altre che sono fatte, sentiamo che una condizione nuova ci attende, di cui non abbiamo esperienza, ma che sarà la piena salvezza. E’ la condizione di quanti risorgeranno con Cristo per la vita eterna.
Vangelo: Mt 5,1-12
Gesù promulga, come un nuovo Mosè, la Legge nuova, che si apre con le Beatitudini. Esse sono la situazione di gioia per quanti si dispongono nello spirito del Vangelo, e quindi fanno la scelta della povertà, della mitezza, della giustizia, della misericordia, della purezza, della pace e che, pur nella sofferenza, non cessano di sperare e di essere fedeli.
Le Beatitudini sono l’antitesi dello spirito del mondo, rovesciano le attese e le valutazioni terrene.
SOLENNITA' DI TUTTI I SANTI.
1 Novembre – Solennità di tutti i Santi.
La festa di tutti i santi si è diffusa nell’Europa latina nel secoli VIII-IX. Si iniziò a celebrare la festa di tutti i santi, anche a Roma, fin dal secolo IX.
Un’unica festa per tutti i Santi, ossia la Chiesa gloriosa, intima-
mente unita alla Chiesa ancora pellegrinante e sofferente. Oggi
è una festa di speranza: « l’assemblea festosa dei nostri fratel-
li » rappresenta la parte eletta e sicuramente riuscita del popolo
di Dio; ci richiama al nostro fine e alla nostra vocazione vera: la
santità, cui tutti siamo chiamati non attraverso opere straordi-
narie, ma con il compimento fedele della grazia del battesimo.
I Santi ci sono « amici e modelli di vita » ci dice san Bernardo e
noi dobbiamo desidera di raggiungere la loro compagnia, poi-
ci attendono e desiderano la nostra salvezza: la loro preziosa
presenza ci protegge e ci incoraggia.
Siamo chiamati ad una pienezza di vita.
Nella vita di ogni giorno ci accorgiamo della fragilità, dei momenti di insuccesso, delle negatività che costellano la nostra vita, dei nostri limiti: tutte queste cose ci fanno sembrare la vita non riuscita.
Ma allora cosa rende questa vita riuscita? Siamo o possiamo essere migliori di quello che pensiamo di essere? Dobbiamo rassegnarci ai nostri fallimenti, ai difetti e ai vuoti della nostra esistenza? Possiamo sperare in una vita migliore per noi e per tutti solo per questa terra o
possiamo pensare e credere che, al di là di tutto questo, ci attende una esistenza in cui si trovano tutti coloro che oggi celebriamo: cioè i Santi, sia coloro che onoriamo nel calendario e sia quelli che hanno vissuto la loro esistenza nella fedeltà al Signore, in cui hanno creduto, pur nel nascondimento e con una testimonianza silenziosa?
Siamo chiamati ad una pienezza di vita.
Il punto centrale della fede cristiana sta nella certezza di fede che la nostra vita e la sua riuscita dipendono da Dio. In varie esperienze religiose si pensa che si possa giungere ad una , se pur imprecisata, pienezza di vita e di pace attraverso un cammino di ascesi e di meditazione.
In alcune concezioni filosofiche di vita si pensa che attraverso uno sforzo di perfezione etica, che gli uomini possono imporsi, individualemte o comunitariamente, è possibile raggiungere una pienezza di vita, almeno nel cammino finale dell’umanità. Si pensa poi, ancora, da parte di altri, che le negatività dell’esistenza possono superarsi con la rassegnazione e che in ultimo arriverà il premio e la consolazione.
Nella religione ebraica, fondata sulla alleanza tra Dio e il popolo, Dio è colui davanti al quale si prova timore, riverenza e rispetto. Dio stesso comunica all’uomo la santità, chiedendogli di essere santo perché Lui è santo. E si raggiunge la santità con l’osservanza della Legge e le pratiche di purificazione e di religione, ma che spesso, come rimproverava Gesù al suo tempo ai farisei, erano vissute con mediocrità e esteriorità. Nella predicazione profetica veniva inculcato il convincimento che la santità e la riuscita della vita sarebbero state donate da Dio.
Con la venuta di Gesù, che porta lo Spirito di santità e lo comunica con la sua morte in croce, gli uomini che ha redenti vengono santificati. Ma con tutto il suo agire, con la sua parola egli manifestò la santità e la pienezza di vita: perdonò i peccati, guarì i malati e donò se stesso, amandoli fino alla fine. Egli, il Signore, il Santo e il giusto, invitò gli uomini ad essere santi come è santo il Padre dei cieli, e così partecipare pienamente alla vita divina, alla vita eterna che siamo chiamati a vivere in Lui. Poiché Dio è Santo, la pienezza di vita consiste nella santità donata da Dio, comunicata dallo Spirito nella morte e risurrezione del Cristo.
Chi sono i Santi che oggi onoriamo e ricordiamo?
San Paolo chiama « Santi di Dio » tutti coloro che battezzati e cresimati sono stati inseriti come membra del Corpo Mistico di Cristo. La nostra santità è una vocazione che non sempre viviamo pienamente per ora, ma siamo santi perché abbiamo la possibilità di vivere, con i doni e le qualità che Dio ha posto in noi, pienamente la comunione col Padre, attraverso il Figlio Gesù, nello Spirito del Padre e del Figlio.
Gesù nelle Beatitudini annuncia questo dono gratuito di Dio fatto a tutti, specialmente a coloro che non hanno nulla su cui possono contare ( poveri in spirito, afflitti, miti, ricercatori di pace e di giustizia ecc.). Dio è colui che è causa della nostra beatitudine e santità. Così, per dono suo, noi possiamo considerare la nostra vita riuscita, pur essendo, a volte, nella povertà, nelle sofferenze, nelle afflizioni e in ultimo anche nelle persecuzioni sofferte per il nome di Cristo.
Lungo la storia della Chiesa, in alcuni è riconosciuta una santità che può essere additata a modello per tutti, perché essi hanno dato disponibilità piena all’amore di Dio e alla dedizione ai poveri, sofferen-ti, emarginati. Questi sono ricordati nel calendario cristiano: quante madri di famiglia, persone consacrate a Dio nelle varie istituzioni, giovani e uomini di varie condizioni sociali, martiri per la fede, ecc.
Quando viene dichiarato « beato » o « santo » qualcuno, lo si fa per additarlo ad esempio e modello di vita per tutti coloro che sono in cammino di santità su questa terra. La vita di santità di questi fratelli è confermato esplicitamente dalla testimonianza concorde di coloro che li hanno conosciuti e sono stati raggiunti dalla loro luce di santità, attraverso segni, virtù, e miracoli che questi santi hanno impetrato da Dio.
Cammino di santità per tutti.
Come possiamo rispondere alla chiamata alla santità che Dio ci fa? Lasciandoci riempire e guidare dallo Spirito Santo attraverso la preghiera, i sacramenti e le opere di testimonianza nella carità, la giustizia,ecc
Così Cristo, attraverso la sua morte e risurrezione, agisce in noi, nell’oggi della nostra vita, e ci santifica. Facendoci coinvolgere dall’iniziativa di Dio, vivendo i sacramenti, soprattutto l’Eucaristia, attuando le opere di misericordia verso i poveri, i sofferenti, gli ultimi, operando per la pace, la giustizia e la misericordia, vivendo con purità di cuore la nostra apertura a Dio e confidando in lui, nei momenti della persecuzione a causa della giustizia e del suo regno, noi operiamo nella fedeltà al Signore e viviamo un cammino fecondo di santità. Vivremo questo itinerario operando il bene, conducendo la nostra esistenza nella gioia, nella pace della coscienza e nella speranza che, nonostante tutto, Dio ci salverà; e se pur manca qualcosa alla nostra perfezione egli la colmerà e ci renderà conformi al suo Figlio, rendendoci santi come è santo lui. Il suo ultimo atto d’amore per noi sarà il sigillo definitivo alla nostra vita, che si concluderà con la nostra salvezza eterna.
Prima Lettura: Ap 7,2.4-9.14.
La moltitudine immensa che sta dinanzi all’Agnello in candide vesti e con la palma tra le mani rappresenta gli eletti, che, grazie al suo sangue, sono stati purificati e gli sono stati fedeli nella prova. Sono i battezzati, che portano il sigillo dell’appartenenza a Dio, ai quali nulla può fare del male.
Seconda Lettura: 1 Gv 3,1-3.
Partecipiamo alla gioiosa constatazione di san Giovanni: Dio ha avuto per noi un amore impensabile, al punto che non siamo solo di nome ma di fatto figli suoi. E lo siamo gia d’adesso, in virtù della vita divina, la grazia, che ci unisce a lui, anche se al’’esterno ancora non appare tutta la nostra dignità, anche se portiamo ancora i segni del nostro legame alla terra, anche se non mancano limiti e sofferenze. Però siamo in attesa della manifestazione completa del nostro essere, quando si rivelerà e si attuerà la conformità completa a Dio e quindi a Cristo, e vedremo Dio non più attraverso il velo delle cose create, delle immagini e delle parole, ma viso a viso. Questo è già avvenuto per i santi, che oggi festeggiamo.
Vangelo: Mt 5,1-12.
Gesù promulga, come un nuovo Mosè, la Legge nuova, che si apre con le Beatitudini. Esse sono la situazione di gioia per quanti si dispongono nello spirito del Vangelo, e quindi fanno la scelta della povertà, della mitezza, della giustizia, della misericordia, della purezza, della pace e che, pur nella sofferenza, non cessano di sperare e di essere fedeli.
Le Beatitudini sono l’antitesi dello spirito del mondo, rovesciano le attese e le valutazioni terrene.
La preghiera del fariseo e del pubblicano.
27 Ottobre – 30a Domenica Tempo Ordinario.
La preghiera del fariseo e del pubblicano.
Ancora una volta Gesù ci insegna nella parabola del fariseo e del pubblicano al tempio quale atteggiamento dobbiamo tenere nella preghiera. Luca, all’inizio di questa parabola, ci preannuncia chi sono quelli per i quali Gesù la racconta: « La disse per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri ».
La preghiera che esprime la gioia non è stata mai condannata da Gesu, perché anche lui l’avrà vissuta come tutti i pellegrini che, andando a Gerusalemme per la festa delle Capanne, davanti alla vista di Gerusalemme ed entrando nel tempio, cantavano e danzavano di gioia accompagnati dal suono della tromba e del corno, dei tamburelli e dei cembali: ringraziavano Dio per il raccolto nella festa d’autunno.
E, come leggiamo nel Vangelo di Marco, Gesù cantò l’inno pasquale al termine dell’Ultima Cena. Gesù quindi partecipa alla preghiera gioiosa. Non approva invece la preghiera fatta con atteggiamento di superbia, confidando in se stessi più che in Dio e avendo atteggiamenti di disprezzo verso i fratelli. Egli insegna che davanti a Dio dobbiamo presentarci con atteggiamento di umiltà, riconoscendo che solo lui è grande e santo e che noi, sue creature, siamo peccatori e fiduciosi nella sua misericordia.
Il fariseo e il pubblicano: persone vere non caricature.
Gesù nella parabola ci presenta un pubblicano, esattore delle tasse, e il pubblicano, ritenuto pubblico peccatore nella mentalità corrente. Il primo, con il suo comportamento, dimostra il vero spirito del fariseismo, i cui aderenti osservavano scrupolosamente la legge di Dio e tra loro venivano reclutati, in genere, i giudici e gli scribi per la conoscenza che avevano della Bibbia. Essi si ritenevano perfetti, credevano di essere essi soli « il popolo di Dio » e « veri figli di Abramo ». Avevano inoltre un alto grado di autostima e credevano di potere occupare i primi posti nelle feste, nelle sinagoghe, di dover essere circondati di onori e riconoscimenti, di potere mettersi in vista nella preghiera al tempio. Una preghiera che recitavano diceva: « Signore, sei fortunato di potere contare su gente come noi!». E non solo si ritenevano fortunati per aver Dio per padre, ma anche Dio poteva ritenersi fortunato di avere figli come loro.
Verso i pubblici peccatori, esattori delle tasse e prostitute, verso le persone che esercitavano mestieri più o meno ripugnanti, dimostravano disprezzo. Verso i pubblicani, ebrei che avevano l’incarico da parte dei Romani di riscuotere le tasse dei loro connazionali, nutrivano un particolare disprezzo e li detestavano, perché si erano asserviti allo straniero e perché molti si erano arricchiti estorcendo più denaro del dovuto ai contribuenti.
Nella preghiera del fariseo, che il Vangelo ci riporta, egli esalta se stesso e loda la propria vita religiosa con la presunzione di essere giusto perchè osserva le prescrizioni della legge, e quindi non ha nulla da chiedere a Dio, non si aspetta nulla da lui. Egli fa mostra di sé, e dei suoi meriti e diritti davanti a Dio. L’altro invece, il pubblicano, con il rimorso nel cuore per le proprie colpe, entra nel tempio con la consapevolezza che davanti alla maestà e santità di Dio, a cui non ritiene di potersi avvicinare, deve riconoscere la propria miseria, battersi il petto pentito e chiedere perdono per i propri peccati di cui non sa nemmeno fare l’elenco.
Dal profondo del cuore sa dire soltanto: « Dio, abbi pietà di me peccatore! ». Questa dovrebbe essere la preghiera di tutti coloro che sanno di non valere niente di fronte a Dio e si rimettono alla misericordia e bontà di Dio.
Anche nella prima lettura dal libro del Siracide leggiamo la preghiera: « Il Signore ascolta la preghiera dell’oppresso …La preghiera del povero attraversa le nubi ». E il Salmo 33, che oggi proclamiamo, afferma: « Il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato… Non sarà condannato chi in lui si rifugia ».
Quale la via della salvezza?
Il piano della salvezza che Dio ha predisposto a favore dell’uomo per mezzo del suo Figlio si realizza in chi assume nella sua esistenza lo stesso atteggiamento del pubblicano, il quale « tornò a casa sua giustificato ». La salvezza che il Padre ci dà ci raggiunge per mezzo della fede in Cristo salvatore, che Dio ha posto come mediatore di riconciliazione dell’uomo con lui. Nella fede in Cristo, che si è proclamato come la Via, venuto nel nome del Padre, noi raggiungiamo Dio.
Il fariseo, nel suo peccato di superbia, poiché crede che attraverso la sua preghiera, le sue opere e i suoi sacrifici può trovare salvezza presso Dio, dimentica che la salvezza è un dono del Padre. Oggi, in questo nostro tempo, in cui l’uomo, attraverso la sua scienza, i suoi mezzi tecnici, crede di potersi salvare da solo, è frequente l’opinione che si può fare a meno di Dio e di Cristo. Così l’atteggiamento del pubblicano ritorna ad essere un gesto profetico per l’uomo di oggi, che, come abbiamo detto, presume di essere giusto e di non aver bisogno di Dio per migliorare se stesso e la vita dell’umanità. Il pubblicano o il vero credente riconosce che la salvezza viene da Dio, e ciò che fa è qualcosa di più che superare il formalismo religioso, o considerare la vicinanza ai sacramenti come un investimento sulla vita eterna. Bisogna per i figli presentarsi al Padre in profonda umiltà davanti a lui, indipendentemente da ciò che fanno, e ricevere il suo dono di grazia e di salvezza. Riconosciamoci nel pubblicano e sentiamoci chiamati alla conversione del cuore per corrispondere all’amore che il Padre ci ha manifestato in Cristo Gesù.
Prima lettura: Sap 9,13-18.
Dio ascolta la preghiera di chi è umile. Non la rigetta, ammettendo preferenze e parzialità. Quello che il Signore chiede non sono doni esteriori, ma la giustizia, che sta nell’intimo del cuore. La discriminazione è invece facile e abituale a noi, sensibili al prestigio nell’accettare o meno una richiesta.
Seconda Lettura: Fm 9,10.12-17.
Paolo è alla fine della sua vita. Da uno sguardo retrospettivo essa gli appare una battaglia, una corsa, un impegno fedelmente assunto. Ma la sua fiducia totale nel Signore, che darà la corona a lui e q quelli che ne attendono la venuta con amore. Solo Gesù Cristo può essere il senso assoluto della vita. E’ lui che sta vicino, assiste, dà forza e salva per sempre.
Meditando il testamento di Paolo siamo indotti a verificare il posto di Gesù nella nostra esistenza, la consistenza del nostro impegno di fede. Se questa presenza è sentita vivamente, riusciamo a venire a capo delle difficoltà, che sono sempre molte, specialmente se vogliamo conservare la fede.
Vangelo: Lc 14,25-33.
Il fariseo non è ascoltato, perché si presenta a Dio vantando i propri meriti ed elogiando le proprie virtù. Dio esaudisce la preghiera che sale da un cuore pentito, consapevole delle proprie colpe, affidato non alle proprie opere, di dubbia e precaria giustizia, ma alla grazia e alla pietà di Dio. Da sempre Dio ascolta solo l’orazione dell’umile.
Ultimo aggiornamento (Sabato 26 Ottobre 2013 21:49)
Pregare con insistenza e senza stancarsi.
20 Ottobre – 29a Domenica del Tempo Ordinario.
Pregare sempre, senza stancarsi.
Spesso nelle catacombe il graffito dell’orante è raffigurato con le mani alzate verso il cielo. Oggi il Signore nella Parola che ci rivolge ci fa riflettere sulla preghiera e sulla sua necessità di pregare con perseveranza e senza stancarsi. L’Esodo ci presenta Mosè che prega levando al cielo le sue braccia durante la battaglia che gli Israeliti combattono contro gli Amaleciti. Quando, stanco, egli le abbassa il popolo perde in battaglia, quando le tiene alzate gli israeliti prevalgono poiché la forza di Dio li sorregge. Aronne e Cur, allora, gli sorreggono le braccia alzate, così gli israeliti sconfiggono il nemico.
Attraverso questa immagine l’israelita è esortato a pregare con insistenza e continuamente.
Anche Gesù nel Vangelo ci esorta a pregare con insistenza e perseviranza attraverso la parabola della donna vedova che si rivolge al giudice, empio e senza fede, per avere giustizia. Questi, dopo le continue e reiterate insistenze della donna, finalmente le fa giustizia, non per amore della giustizia ma per liberarsi dalle continue seccature di lei.
Gesù allora dice: « Se le continue preghiere furono ascoltate dal giudice malvagio volete che non siano ascoltate da Dio, che è vostro Padre?».
La preghiera in « chiesa » e « fuori chiesa ».
Pregare per Gesù è parlare con Dio, nostro Padre, che è sempre e amorevolmente accanto a noi. Pregare parlando con il Padre celeste è un modo confidenziale di dialogare con lui, come fa un bambino con suo papà o la sua mamma. Gesù, nei giorni prescritti, entra nella sinagoga, luogo di preghiera per gli ebrei, per ascoltare e, a volte, leggere e spiegare le Scritture ai suoi compaesani. Gesù, ancora, passa molti momenti della sua vita, al mattino presto o a tarda sera, in preghiera confidenzale col Padre celeste, parlando con lui con parole spontanee, libere, alimentando così un rapporto costante con Dio. Davanti agli apostoli, che sono ritornati entusiasti dopo la loro esperienza di predi- cazione missionaria, Gesù si rivolge al Padre e dice: « Ti ringrazio, Padre, perché hai nascosto queste cose ai grandi e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli » (Lc 10,21). Anche dopo la risurrezione di Lazzaro, richiamato in vita dalla tomba, prega dicendo: « Padre, ti ringrazio perché mi hai ascoltato Lo sapevo che sempre mi dai ascolto » ( Gv 11,41).
Soprattutto nei momenti importanti della sua vita: nel deserto, prima di iniziare la sua missione profetica, prega e riflette sulla Bibbia per trovare la forza contro le tentazioni di Satana; nella notte prima di sc egliere gli apostoli prega sul monte; nella notte precedente la passione, Gesù parla con il Padre a tu per tu, per avere la forza di bere il calice della passione, ecc.
Come la vedova che nei momenti di difficoltà implora il giudice perchè le faccia giustizia, così la preghiera deve farsi forte quando eventi gravimettono alla prova la nostra adesione a Dio. La preghiera è per lo spirito come l’aria che respiriamo per il corpo: si respira in maniera impercettibile solitamente, ma in alcuni momenti particolari di intensa e continuata fatica si respira più intensamente, così deve avvenire nel nostro rapporto con Dio attraverso la preghiera: vivere solitamente una preghi era semplice, assidua, spontanea, e, nei momenti difficili dell’esistenza, vivere un più intenso rapporto di preghiera con Lui. Come Gesù che sulla croce, in un momento di grande sofferenza, elevò al Padre l’accorata preghiera del salmo 21, così è per il credente in lui, se lo si vuole seguire nella fedeltà a Dio.
Pregare con parole note, imparate a memoria, ma con un pizzico di amore e attenzione, anche nei momenti di stanchezza; elevare le mani stanche pur nei momenti di smarrimento in cui non si hanno parole da rivolgere al Signore, è ugualmente dialogare col Padre celeste, vivere in comunione con lui. In questi momenti è nella memoria che noi troviamo le parole che possono esprimere i sentimenti più profondi dell’animo al Signore: la preghiera sale dall’intimo di noi stessi, dove è nascosto il tesoro dell’amore di Dio, a cui non vogliamo certo rinunciare. La trasmissione delle preghiere a memoria ai bambini non è solo un puro atto meccanico dell’opera educativa religiosa, ma una modalità che aiuterà il futuro orante nei momenti difficili e di stanchezza fisica e spirituale.
Poche o tante parole?
Gesù dice che nel pregare non bisogna sprecare tante parole come i pagani che credono di essere esauditi a forza di parole (Mt 6), perché il Padre celeste sa di che cosa i suoi figli hanno di bisogno ancor prima che gliele chiedono. Ma, allora, perché il Signore oggi nel Vangelo ci esorta a « gridare giorno e notte verso Dio ?».
Gesù sembra dirci che se crediamo di essere figli di Dio, dobbiamo comportaci come ci comporteremmo con il nostro padre terreno. Certo poche parole bastano. Ma se non si è ascoltati, allora bisogna insistere, gridare, non stancarsi. Il Signore vuol farci capire che in certi momenti difficili della nostra vita abbiamo più noi bisogno di pregare che Dio di ascoltarci.
Sant’Agostino, a questo proposito, ha una meravigliosa riflessione che certamente ci aiuta a capire queste espressioni di Gesù, che ci sem- brano in contraddizione tra loro. Egli scrive nella Lettera a Proba :
I tempi fissi della preghiera
Manteniamo sempre vivo il desiderio della vita beata, che ci viene dal Signore Dio e non cessiamo mai di pregare. Ma, a questo fine, è necessario che stabiliamo certi tempi fissi per richiamare alla nostra mente il dovere della preghiera, distogliendola da altre occupazioni o affari, che in qualche modo raffreddano il nostro desiderio, ed eccitandoci con le parole dell'orazione a concentrarci in ciò che desideriamo. Facendo così, eviteremo che il desiderio, tendente a intiepidirsi, si raffreddi del tutto o si estingua per mancanza di un frequente stimolo.
La raccomandazione dell'Apostolo: «In ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste» (Fil 4, 6) non si deve intendere nel senso che dobbiamo portarle a conoscenza di Dio. Egli infatti le conosceva già prima che fossero formulate. Esse devono divenire piuttosto maggiormente vive nell'ambito della nostra coscienza. Esse, poi, devono contare su un atteggiamento fatto di fiduciosa attesa dinanzi a Dio, più che ambire la manifestazione reclamistica dinanzi agli uomini.
Stando così le cose, non è certo male o inutile pregare a lungo, quando si è liberi, cioè quando non si è impediti dal dovere di occupazioni buone o necessarie. Però anche in questo caso, come ho detto, si deve sempre pregare con quel desiderio. Infatti il pregare a lungo non è , come qualcuno crede, lo stesso che pregare con molte parole. Altro è un lungo discorso, altro uno stato d'animo prolungato. Consideriamo come del Signore stesso sia scritto che passava le notti in preghiera, e che nell'orto pregò a lungo. Ed in ciò, che altro intendeva, se non darci l'esempio, egli che nel tempo è l'intercessore propizio, mentre nell'eternità è , insieme al Padre, colui che ci esaudisce?
Sappiamo che gli eremiti d'Egitto fanno preghiere frequenti, ma tutte brevissime. Esse sono rapidi messaggi che partono all'indirizzo di Dio. Così l'attenzione dello spirito, tanto necessaria a chi prega, rimane sempre desta e fervida e non si assopisce per la durata eccessiva dell'orazione. E in ciò essi mostrano anche abbastanza chiaramente che non si deve voler insistere in un prolungato sforzo di concentrazione, quando si vede che non può durare oltre un certo tempo, e d'altra parte non si deve interrompere alla leggera o bruscamente la preghiera, quando si vede che la presenza vigile della mente può continuare.
Lungi dunque dalla preghiera ogni verbosità, ma non si tralasci la supplica insistente, se perdura il fervore e l'attenzione. Il servirsi di molte parole nella preghiera equivale a trattare una cosa necessaria con parole superflue.
Il pregare consiste nel bussare alla porta di Dio e invocarlo con insistente e devoto ardore del cuore.
Il dovere della preghiera si adempie meglio con i gemiti che con le parole, più con le lacrime, che con i discorsi. Dio, infatti, «pone davanti al suo cospetto le nostre lacrime» (Sal 55, 9 volg.), e il nostro gemito non rimane nascosto (cfr. Sal 37, 10) a lui che tutto ha creato per mezzo del suo Verbo, e non cerca le parole degli uomini.
Prima Lettura: Es 17,8-13.
Mosè è il grande intercessore presso Dio a vantaggio del suo popolo. Questi perde, se lui non prega più. L’orazione è lo strumento attraverso cui passa la grazia e la forza di Dio. E’ sempre così: la preghiera mette a contatto con la potenza di Dio, allora riesce a ottenere tutto.
Seconda Lettura : 2 Tm 3,14-4,2.
La parola di Dio, come realtà viva – che è poi Gesù Cristo – deve assorbire e unificare l’impegno di chi è dedito al ministero. Questi la deve proclamare con forza, incessantemente. Non deve temere di rimproverare e di ammonire.
Un luogo di questa Parola sono le Scritture, ispirate da Dio, e quindi tali da saper insegnare, correggere ed essere punto di riferimento per la propria condotta. Non basta leggerle, ci si deve fermare su di esse. In particolare su di esse deve fermarsi l’« uomo di Dio », l’apostolo, che ha come funzione quella di guidare la Chiesa.
Vangelo : Lc 18,1-8.
Bisogna essere perseveranti nella preghiera e non lasciarsi deprimere. Se alla fine anche un giudice iniquo si lascia indurre a fare giustizia di fronte ad una richiesta incessante, a maggior ragione si lascerà indurre Dio. Il brano del Vangelo ci esorta a non lasciarci prendere dalla delusione, quasi dal risentimento perché non vediamo subito esaudite le nostre richieste. « Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti ?», a quelli che egli ama. Anzi Gesù non esita a dire che tale giustizia sarà fatta prontamente. L’esperienza sembra smentire questo, ma si tratta di sapere che cosa vuol dire questo per Dio « fare giustizia »: vuol dire attuare per noi il suo disegno di amore, e questo alla nostra domanda perseverante si compie sicuramente e infallibilmente senza ombra di dubbio. Occorre però la fede. Al riguardo ci impensierisce quando Gesù si chiede: « Il Figlio dell’uomo quando verrà, troverà la fede sulla terra? ».
Ultimo aggiornamento (Sabato 19 Ottobre 2013 19:00)