





VIVIAMO NELLA GIOIA DELL'ABBRACCIO DEL PADRE CELESTE.
30 MARZO – IV DOMENICA DI QUARESIMA – “ LAETARE”
Nell’appressarsi della Pasqua affrettiamoci, con “ fede viva e generoso impegno ”, a vivere riconoscendo Gesù, quale Figlio di Dio, che è mandato dal Padre perché gli uomini, come il cieco nato che Gesù guarisce dalla cecità, possano vedere il cammino che Egli ci indica per ritrovare la strada di ritorno alla casa del Padre. Gesù è venuto per guarirci dalla cecità spirituale, liberarci dalle tenebre del peccato, dai « morsi del maligno ».
Nella preghiera iniziale dell’Eucaristia chiediamo a Dio, buono e fedele, che mai si stanca di richiamare gli erranti a vera conversione e, nel suo Figlio innalzato sulla croce che ci guarisce dai morsi del maligno, a «donarci la ricchezza della tua grazia, perché rinnovati nello spirito possiamo corrispondere al tuo eterno e sconfinato amore ». Quando allora ritorniamo come figli pentiti al suo abbraccio paterno rigustiamo la gioia nella cena pasquale dell’ Agnello, come il figlio prodigo per il quale il padre prepara una festa per averlo riavuto sano e salvo.
Nella Colletta iniziale preghiamo dicendo: « O Padre, che in Cristo crocifisso e risorto offri a tutti i tuoi figli l’abbraccio della riconciliazione, donaci la grazia di una vera conversione, per celebrare con gioia la Pasqua dell’Agnello. Egli è Dio, e vive e regna con te… ».
Prima Lettura: Gs 5,9.10-12.
Giunti a Galgala gli Israeliti celebrarono la Pasqua al quattordici del mese e il giorno dopo la Pasqua mangiarono i prodotti della terra, azzimi e frumento abbrustolito. Dal giorno seguente la manna cessò. Raggiunta la terra promessa, viene celebrata la Pasqua, memoriale della liberazione, che accompagnerà Israele lungo la sua storia. La Pasqua non sarà un semplice ricordo di un avvenimento di tanti anni fa, ma dovrà essere il segno che assicurava la presenza e la grazia del Signore. Quell’antico riscatto di liberazione è, pur sempre, per noi cristiani, inizio e immagine, come la terra di Canaan, della Pasqua di Cristo, che nel suo sangue ha liberato l’umanità dal peccato per introdurla nella Pasqua eterna del cielo: terra promessa definitiva in cui introdurrà l’umanità nella fase finale della storia di salvezza.
Seconda Lettura: 2 Cor 5,17-21.
San Paolo, ai Corinzi, ricorda che ormai chi è in Cristo è una creatura nuova. Questo rinnovamento viene da Dio che ha riconciliato l’umanità con sé mediante Cristo e ha affidato agli apostoli il ministero della riconciliazione.
Dio così, riconciliando con sé il mondo, non imputa agli uomini le loro colpe e mediante la parola affidata agli apostoli rende questa riconciliazione salvifica nella vita degli uomini. Esorta ancora i Corinzi a lasciarsi riconciliare con Dio: «In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo; lasciatevi riconciliare con Dio », perché Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo ha fatto peccato in nostro favore e per lui noi siamo diventati giustizia di Dio.
Cristo è morto per noi per amore e noi dobbiamo rispondere a questo amo- re donando la nostra per lui. Viviamo in Cristo, morto e risorto e, vivendo da « nuove creature » rigenerate dalla sua grazia, iniziamo un cammino nuovo di vita santa, abbandonando tutte le cose di peccato passate. Siamo riconciliati con Dio, ricevendo il perdono completamente gratuito suo e senza nostro merito, poiché è di Cristo il merito. Il Sacramento della Riconciliazione, in Quaresima, è certamente un’occasione per vivere intensamente la riconciliazione e attingere copiosamente il perdono di Dio, attraverso il ministero della Chiesa.
Vangelo: Lc 15,1-3.11-32.
Il Vangelo di questa Domenica, attraverso una delle pagine più belle, la parabola del figlio prodigo, ci fa riflettere e contemplare l’amore grande, misericordioso di Dio nel confronti del figlio minore, da una parte, che si allontana dalla casa del Padre, dal suo amore e, usando negativamente i suoi doni e i suoi benefici, si riduce in una condizione deplorevole e degradante, e verso il figlio maggiore, dall’altra, che non vuole riconoscere né accogliere il fratello che ritorna a casa e, pur facendogli presente, davanti alle sue lamentele, che di tutto lui poteva disporre di quello che era in casa, si rifiuta di entrare e partecipare alla festa che il padre ha preparato per il figlio ritrovato. E’ certo la parabola narrata da Gesù in riferimento ai peccatori e pubblicani che venivano rifiutati ed emarginati da coloro che si ritenevano giusti, scribi e farisei. Ma in essa, al di là del contesto storico di allora, dobbiamo vedere tutti gli uomini. Nel figlio minore sono prefigurati coloro che, come uomini usando negativa-mente i doni che Dio dà ad ognuno o nel contesto religioso di fede si allontanano dal Signore e riducono la loro dignità, come si era ridotto il Figlio prodigo, costretto per sopravvivere a pascolare i porci: per tutti costoro Dio aspetta che ritornino al suo amore, li accoglie nella sua misericordia e per loro prepara la festa. Nel figlio maggiore coloro che pur non si allontanandosi da Dio, nell’una o altra situazione di vita, di credenti o meno, non sanno vedere i doni che Dio dona, il bene che nella sua provvidenza elargisce e pensano che Dio non li tratti secondo i loro desideri, e per di più, non riconoscono il suo amore e non accettano di far festa per i fratelli che ritornano all’amore del Padre, Lontano da Dio l’uomo cerca la sua autonomia, credendo di realizzare meglio la vita. Ma la conclusione di questa esperienza può essere la fame, l’umiliazione, la vergogna, la solitudine. Solo quando l’uomo tocca il fondo del degrado nella sua dignità, ritorna alla memoria della dignità perduta, la coscienza si illumina e può riprende un cammino di ritorno. Ritornando a casa, il figlio della parabola dice al padre: « Padre ho peccato contro il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio ». Dio, come quel padre, attende con amore paterno l’uomo che ritor- na a lui e non cessa di aspettare per riabilitarlo e restituirlo nella dignità filiale, rivestendolo « Col vestito più bello … mettendogli l’anello al dito e i sandali ai piedi » e preparandogli una festa, perché « Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato ».L’atteggiamento di Dio indispettisce chi si crede giusto, chi non è capace di rallegrarsi con il cuore del Padre celeste, ritenendo di avere diritti per aver servito in casa per tanti anni e non aver disobbedito a Dio. Gesù così, accogliendo i peccatori, suscita stupore nei farisei che mormorano. Ma Gesù ha proclamato che: « Si fa Più festa in cielo per un peccatore pentito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione ».
NEI GIORNI DI LUNEDI', MARTEDI', MERCOLEDI' GIOVEDI 31 MARZO- 3 APRILE
ALLE ORE 19.00 CI SONO GLI ESERCIZI SPIRITUALI TENUTI DA PADRE CARMELO GIUNTA.
SIAMO CIRCONDATI DALLA PAZIENZA E DALL'AMORE DI DIO.
23 MARZO – III DOMENICA DI QUARESIMA
Dio, nella sua misericordia, non ci abbandona quando ci allontaniamo da lui e con il suo perdono ci riaccoglie nel suo abbraccio paterno. Gesù, attraverso la parabola del fico, piantato nella vigna, che il padrone del campo vorrebbe sradicare perché non produce frutto ma che, accogliendo la richiesta del vignaiolo, permette di zappargli attorno e concimarlo perché porti frutto, altrimenti, l’ avrebbe tagliato, vuol farci comprendere che il Padre celeste, padrone della nostra vita, è disposto a pazientare verso il peccatore, aspettando che ritorni al suo amore e porti frutti di bene. Gesù è il vignaiolo che Dio ha mandato nel mondo perché coltivi questa umanità che si è allontanata da lui e con la sua intercessione chiede di pazientare. Egli, come dice alla Samaritana, ci dona l’acqua del suo Spirito che ci rigenera e ci purifica. Alla nostra umanità riarsa egli dà « l’acqua viva della grazia », per mezzo della quale noi diventiamo « tempio vivo dell’amore di Dio ».
In questo tempo di quaresima il cammino di ritorno a Dio, la nostra ripresa interiore della santità, la vittoria sulle tentazioni e il peccato, passano attraverso la preghiera, la penitenza, il digiuno e le opere di carità fraterna. Tutto questo che la liturgia ci ricorda deve tradursi nell’esperienza concreta della vita, per cui vincendo il nostro egoismo la « durezza del nostro cuore » viene infranta.
Nella Colletta di questa Domenica preghiamo dicendo:« O Dio dei nostri padri, che ascolti il grido degli oppressi, concedi ai tuoi fedeli di riconoscere nelle vicende della storia il tuo invito alla conversione, per aderire sempre più saldamente a Cristo, roccia della nostra salvezza. Egli è Dio, e vive e regna con te… ».
Prima Lettura: Es 3,1-8.13-15.
A Mosè, nel deserto, mentre con il gregge del suocero Ietro era vicino al monte di Dio, l’Oreb, apparve l’angelo del Signore in una fiamma di fuoco in mezzo ad un roveto. Vedendo che esso non bruciava, si avvicinò, per osservare il « grande spettacolo: perché il roveto non brucia?».
Ma il Signore Dio, dal roveto, gli gridò:« Mosè, Mosè! ». Rispose: « Eccomi!». Riprese: « Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio si Abramo, di Isacco e di Giacobbe ». Mosè allora si coprì il volto per paura di guardare Dio.
Il Signore riprese a parlare dicendogli che è sceso per liberare il suo popolo dal potere dell’Egitto e portarlo verso una terra « bella e spaziosa, dove scorrono latte e miele », avendo osservato la miseria del suo popolo. il grido degli oppressi e udito il suo grido a causa delle sofferenze per la dura schiavitù. Mosè allora chiese a Dio: « Se, andando dal popolo in Egitto e dicendo che il Dio dei loro padri lo ha mandato a loro, essi gli chiederanno: “ Qual è il suo nome?”, cosa egli avrebbe dovuto rispondere?.». Dio allora disse a Mosè di rispondere loro: « Io sono colui che sono!». E aggiunse: « Così dirai agli Israeliti: “ Io Sono mi ha mandato a voi”». Continuando a parlare Dio disse:« Dirai agli Israeliti: “ Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione ». Il Dio che appare a Mosè non è un idolo, ma il Signore della storia, il Dio che ha promesso ai Padri e a cui si accede con rispetto e con non facile confidenza. E’ un Dio vicino all’uomo e che ode la miseria del suo popolo che grida, tanto da scendere e decidere di liberarlo dalla dura schiavitù, perché egli è l’« Io sono colui che sono! », che nessun uomo può comprendere né dominare. Egli è il redentore, la guida, la sua sicurezza. Anche Gesù, dirà agli giudei nel Getsemani “ Io Sono”, ed essi stramazzeranno a terra, ci riferisce l’evangelista Giovanni.
Seconda Lettura: 1 Cor 10,1-6.10-12.
San Paolo ai Corinzi scrive che tutto quello che vissero i padri nel deserto, cioè, essere sotto la nube che li accompagnava, aver attraversato il mare, essere battezzati in Mosè, aver mangiato lo stesso cibo spirituale, bevuto la stessa bevanda spirituale: tutto scaturiva da una roccia spirituale che è il Cristo. Ma poiché la maggior parte di loro non è stata gradita a Dio e venne sterminata avendo desiderato cose cattive, così dice Paolo, essi sono un esempio per noi tutti, affinché non desideriamo anche noi cose cattive, e non mormoriamo come essi mormorarono, cadendo vittime dello sterminatore. Tutte queste cose sono accadute loro come esempio e sono state scritte per nostro ammonimento, affinché restiamo saldi nel Signore e ci guardiamo dal cadere vittime del tentatore. Come a motivo della diffidenza e della mormorazione che i padri vissero nel deserto, non avendo riconosciuto ciò che Dio aveva compiuto in loro favore, fu causa del loro non essere graditi a Lui, così la comunità di Corinto, per la ribellione e la mormorazione, la confidenza e la pretesa dei propri meriti è esposta alla infedeltà al dono del Vangelo e della grazia di Cristo, per cui senza una sincera conversione, come esorta Gesù nel Vangelo di oggi, nessun atto sacro e sacramentale può produrre in noi la salvezza che egli è venuto ad operare.
Vangelo: Lc 13,1-9.
Nel Vangelo, in riferimento al fatto che alcuni Galilei furono da Pilato uccisi durante un rito sacrificale, perché si erano macchiati di qualche crimine per cui il governatore comminò la morte, Gesù dice a coloro che lo stanno ascoltando che se non ci si converte al messaggio che egli annunzia, si perirebbe allo stesso modo di quelli. Così’, aggiunge ancora Gesù , come le vittime del crollo della torre di Silo sono state uccise per un fatto calamito-so senza loro colpa, anche tutti gli abitanti di Gerusalemme non sono meno colpevoli degli uni e degli altri. « No, io vi dico, ma se non vi convertite, perire-te tutti allo stesso modo » egli aggiunge. Volendo spiegare il significato allora delle sue parole, attraverso la parabola dell’albero di fico piantato nella vigna e che non dà frutti, vuol dire a tutti che se non ci si converte a Dio, non si accoglie il suo Vangelo salvifico, se non si portano frutti di opere buone, opere di giustizia, per cui si è graditi al Signore, non si può partecipare della sua salvezza. Tutti abbiamo bisogno di vera conversione a Dio. Non c’è da illudersi e la rovina a cui potremmo andare incontro ci colpirebbe non solo negli aspetti materiali, ma anche nella sfera spirituale: rovina definitiva e totale, il fallimento dell’intera nostra vita; essere irrevocabilmente allontanati dalla comunione con Dio. Sarebbe la conseguenza della nostra sterilità spirituale, della improduttività della nostra esistenza, sia nel versante di Dio, a cui non abbiamo creduto con la nostra adesione a Lui, sia nel versante degli uomini, verso i quali non abbiamo posto gesti di carità, di giustizia, di fraternità, non avendo portato frutti di bene né realizzato il disegno divino della volontà del Signore come ci indica Gesù. Oggi la liturgia della Parola del Vangelo ci dice che Egli è paziente, e che il Signore non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva, secondo l’esortazione e l’ammonimento rivolto all’uomo per mezzo del profeta Ezechiele.
« QUESTI È IL FIGLIO MIO L'ELETTO: ASCOLTATELO! »
16 MARZO – II DOMENICA DI QUARESIMA
« QUESTI È IL FIGLIO MIO L'ELETTO: ASCOLTATELO! »
Nella trasfigurazione di Gesù sul monte Tabor, il Padre manifesta il suo Fi-glio, l’amato, e ci chiedere di aderire a lui e ascoltarlo. La nostra vita, allora,
deve essere programmata sulla sua parola. Egli, apparendo agli occhi degli apostoli con Mosè ed Elia, conclude l’Antico Testamento con la sua legge e la profezia e, iniziando una nuova realtà di vita, ci chiede di assumere nella nostra vita il mistero della croce sulla quale egli si è consegnato. Così noi possiamo avere la remissione dei nostri peccati e seguirlo, portando anche noi la nostra croce dietro a lui, se vogliamo essere suoi discepoli. La sequela di Gesù è un cammino difficile che dobbiamo compiere nella fede e nella speranza, intravvedendo nella trasfigurazione di Gesù, che oggi la liturgia ci fa contemplare, un riverbero della gloria del Risorto, a cui devono pervenire tutti i discepoli che seguiranno il Signore sulla via della croce.
Nella Colletta iniziale dell’Eucaristia preghiamo dicendo: « O Padre, che hai fatto risplendere la tua gloria sul volto del tuo Figlio in preghiera, donaci un cuore docile alla sua parola, perché possiamo seguirlo sulla via della croce ed essere trasfigurati ad immagine del suo corpo glorioso. Egli è Dio, e vive regna con te …».
Prima Lettura: Gn15,5-12.17-18.
Ad Abramo Dio promette una lunga e numerosa discendenza dopo avergli fatto guardare il cielo e contare le stelle, se ci fosse riuscito.« Abramo credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia ».Dio, così, non per meriti di Abramo stringe con lui un’alleanza e gli promette anche di dargli una lunga discendenza e il possesso della terra dove lo ha condotto. Alla richiesta di Abramo di sapere se ne avrà il possesso, Dio gli chiede di offrire un sacrificio di una giovenca, di una capra, un ariete, una tortora e una colomba, animali che egli divide in due parti collocandone ogni metà l’una di fronte all’altra, eccettuando di dividere gli uccelli. Poiché su questi cadaveri si avventano gli uccelli rapaci, Abramo li scaccia. Ma al tramontar del sole un profondo torpore prende Abramo e un terrore e un’oscurità grande lo assale. Quando, tramontato il sole e si fa buio, ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi e il Signore «In quel giorno conclude quest’alleanza con Abram: “ Alla tua discendenza io do questa terra, dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume e e regna con te…Eufrate ».
Abramo aderendo al Signore è giustificato davanti a lui e, ponendo la vita alle sue dipendenze, entra in un rapporto di solidarietà e di comunione con Dio. Quello che Abramo fa con gli animali, il terrore che lo assale, il torpore da cui è preso, da una parte, esprimono il misterioso linguaggio del sacrificio e il fuoco che brucia le vittime, dall’altra, esprime la presenza di Dio che sancisce l’alleanza e la comunione con il patriarca, che si impegna ad essere fedele al Signore fino alla morte. Con Cristo, Dio, non più con vittime sacrificali, ma con il suo stesso Figlio, offerto e consumato nel sacrificio della croce, sancirà una nuova, eterna e indistruttibile alleanza con l’umanità. La salvezza e il possesso del regno dei cieli, terra promessa da Dio, dipendono sempre dalla fede e dall’affidamento, nella speranza, al Padre celeste.
Seconda Lettura: Fil 3,17-4,1.
San Paolo esorta i Filippesi e ripetutamente li scongiura « con le lacrime agli occhi », ad imitare lui e coloro che si comportano secondo il suo esempio e non quelli che si comportano da nemici della croce di Cristo. Incorrono nella perdizione coloro che si vantano e non si vergognano di aver fatto del loro ventre il proprio dio o pensano solo alle cose terrene. Quelli che hanno accolto Cristo sono diventati cittadini del cielo e aspettano che dal cielo venga Cristo,
Signore e Salvatore, quando « trasfigurerà il nostro misero corpo per con- formarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose ». Infine li esorta, loro che sono sua « gioia e corona », a rimanere saldi nel Signore Gesù. Chi sono, secondo Paolo, i nemici della croce di Cristo? Sono coloro che passano l’esistenza dediti ad una « vita godereccia », materialistica, alla ricerca dei piaceri allegri, anche se peccaminosi. I cri- stiani, pur vivendo in questo mondo, devono pensare alla patria celeste, di cui sono divenuti cittadini e in cui li attende Cristo risorto nella gloria, quando, alla fine dei tempi, verrà per trasfigurarci e renderci come lui, anche nel nostro corpo mortale. Le fragilità, le debolezze, le pesantezze della materialità del nostro corpo e del nostro essere ancora mortale possono facilmente farci adagiare nella concupiscenza che ci fa inclini al male. Se pensiamo che già, fin da ora, c’è in noi il germe della risurrezione, depositatovi dallo Spirito del Signore, dall’Eucaristia e dai sacramenti, allora, dobbiamo vivere sempre più dediti alla vita divina, in cui dobbiamo crescere.
Vangelo: Lc 9,28-36.
Luca, in questo brano odierno, ci fa contemplare la visione della trasfigurazione avvenuta sul Tabor, dopo l’annunzio fatto da Gesù sul viaggio verso Gerusalemme e la sua imminente passione e morte ad opera degli scribi e dei farisei. Salito con Pietro, Giacomo e Giovanni, sul monte Tabor, mentre Gesù prega, il suo volto cambia d’aspetto, la sua veste diviene candida e sfolgorante e appaiono con lui nella gloria, Mosè ed Elia, che conversano con lui sull’esito che sta per compiersi a Gerusalemme. Pietro e gli altri due sono oppressi dal sonno, ma svegliandosi vedono la sua gloria e i due che stanno con lui. Nel momento in cui Gesù e i due si stanno separando, Pietro, estasiato, dice a Gesù: « Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia ». Mentre parla così una nube li copre e la paura li prende. Ma dalla nube una voce proclama: « Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo! ». Cessata la voce, Gesù rimane solo. Scendendo dal monte, Gesù intima loro di non riferire niente a nessuno di ciò che hanno visto.
Gesù, con la sua trasfigurazione, rivela il mistero della sua identità e della sua gloria, dell’intimità che egli vive ««con il Padre e in cui Dio lo manifesta come Figlio, l’eletto, che gli uomini devono ascoltare: il Figlio è Parola del Padre, rivelazione visibile del Padre, inviato per realizzare il progetto di salvezza e redenzione dell’umanità. I segni del volto luminoso e la veste candida simboleggiano questa realtà divina, che non lo sottrae alla passione e alla morte. Con Mosè ed Elia, rappresentanti della legge, il primo, e della profezia, il secondo, Gesù discorre del suo imminente esodo che avverrà a Gerusalemme. Se nella visione celestiale, Gesù è e sarà contemplato, qui sulla terra, nella realtà della sua passione e morte, Gesù, come Figlio, deve essere ascoltato e imitato.
« QUESTI È IL FIGLIO MIO L'ELETTO: ASCOLTATELO! »
16 MARZO – II DOMENICA DI QUARESIMA
« QUESTI È IL FIGLIO MIO L'ELETTO: ASCOLTATELO! »
Nella trasfigurazione di Gesù sul monte Tabor, il Padre manifesta il suo Fi-glio, l’amato, e ci chiedere di aderire a lui e ascoltarlo. La nostra vita, allora,
deve essere programmata sulla sua parola. Egli, apparendo agli occhi degli apostoli con Mosè ed Elia, conclude l’Antico Testamento con la sua legge e la profezia e, iniziando una nuova realtà di vita, ci chiede di assumere nella nostra vita il mistero della croce sulla quale egli si è consegnato. Così noi possiamo avere la remissione dei nostri peccati e seguirlo, portando anche noi la nostra croce dietro a lui, se vogliamo essere suoi discepoli. La sequela di Gesù è un cammino difficile che dobbiamo compiere nella fede e nella speranza, intravvedendo nella trasfigurazione di Gesù, che oggi la liturgia ci fa contemplare, un riverbero della gloria del Risorto, a cui devono pervenire tutti i discepoli che seguiranno il Signore sulla via della croce.
Nella Colletta iniziale dell’Eucaristia preghiamo dicendo: « O Padre, che hai fatto risplendere la tua gloria sul volto del tuo Figlio in preghiera, donaci un cuore docile alla sua parola, perché possiamo seguirlo sulla via della croce ed essere trasfigurati ad immagine del suo corpo glorioso. Egli è Dio, e vive regna con te …».
Prima Lettura: Gn15,5-12.17-18.
Ad Abramo Dio promette una lunga e numerosa discendenza dopo avergli fatto guardare il cielo e contare le stelle, se ci fosse riuscito.« Abramo credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia ».Dio, così, non per meriti di Abramo stringe con lui un’alleanza e gli promette anche di dargli una lunga discendenza e il possesso della terra dove lo ha condotto. Alla richiesta di Abramo di sapere se ne avrà il possesso, Dio gli chiede di offrire un sacrificio di una giovenca, di una capra, un ariete, una tortora e una colomba, animali che egli divide in due parti collocandone ogni metà l’una di fronte all’altra, eccettuando di dividere gli uccelli. Poiché su questi cadaveri si avventano gli uccelli rapaci, Abramo li scaccia. Ma al tramontar del sole un profondo torpore prende Abramo e un terrore e un’oscurità grande lo assale. Quando, tramontato il sole e si fa buio, ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi e il Signore «In quel giorno conclude quest’alleanza con Abram: “ Alla tua discendenza io do questa terra, dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume e e regna con te…Eufrate ».
Abramo aderendo al Signore è giustificato davanti a lui e, ponendo la vita alle sue dipendenze, entra in un rapporto di solidarietà e di comunione con Dio. Quello che Abramo fa con gli animali, il terrore che lo assale, il torpore da cui è preso, da una parte, esprimono il misterioso linguaggio del sacrificio e il fuoco che brucia le vittime, dall’altra, esprime la presenza di Dio che sancisce l’alleanza e la comunione con il patriarca, che si impegna ad essere fedele al Signore fino alla morte. Con Cristo, Dio, non più con vittime sacrificali, ma con il suo stesso Figlio, offerto e consumato nel sacrificio della croce, sancirà una nuova, eterna e indistruttibile alleanza con l’umanità. La salvezza e il possesso del regno dei cieli, terra promessa da Dio, dipendono sempre dalla fede e dall’affidamento, nella speranza, al Padre celeste.
Seconda Lettura: Fil 3,17-4,1.
San Paolo esorta i Filippesi e ripetutamente li scongiura « con le lacrime agli occhi », ad imitare lui e coloro che si comportano secondo il suo esempio e non quelli che si comportano da nemici della croce di Cristo. Incorrono nella perdizione coloro che si vantano e non si vergognano di aver fatto del loro ventre il proprio dio o pensano solo alle cose terrene. Quelli che hanno accolto Cristo sono diventati cittadini del cielo e aspettano che dal cielo venga Cristo,
Signore e Salvatore, quando « trasfigurerà il nostro misero corpo per con- formarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose ». Infine li esorta, loro che sono sua « gioia e corona », a rimanere saldi nel Signore Gesù. Chi sono, secondo Paolo, i nemici della croce di Cristo? Sono coloro che passano l’esistenza dediti ad una « vita godereccia », materialistica, alla ricerca dei piaceri allegri, anche se peccaminosi. I cri- stiani, pur vivendo in questo mondo, devono pensare alla patria celeste, di cui sono divenuti cittadini e in cui li attende Cristo risorto nella gloria, quando, alla fine dei tempi, verrà per trasfigurarci e renderci come lui, anche nel nostro corpo mortale. Le fragilità, le debolezze, le pesantezze della materialità del nostro corpo e del nostro essere ancora mortale possono facilmente farci adagiare nella concupiscenza che ci fa inclini al male. Se pensiamo che già, fin da ora, c’è in noi il germe della risurrezione, depositatovi dallo Spirito del Signore, dall’Eucaristia e dai sacramenti, allora, dobbiamo vivere sempre più dediti alla vita divina, in cui dobbiamo crescere.
Vangelo: Lc 9,28-36.
Luca, in questo brano odierno, ci fa contemplare la visione della trasfigurazione avvenuta sul Tabor, dopo l’annunzio fatto da Gesù sul viaggio verso Gerusalemme e la sua imminente passione e morte ad opera degli scribi e dei farisei. Salito con Pietro, Giacomo e Giovanni, sul monte Tabor, mentre Gesù prega, il suo volto cambia d’aspetto, la sua veste diviene candida e sfolgorante e appaiono con lui nella gloria, Mosè ed Elia, che conversano con lui sull’esito che sta per compiersi a Gerusalemme. Pietro e gli altri due sono oppressi dal sonno, ma svegliandosi vedono la sua gloria e i due che stanno con lui. Nel momento in cui Gesù e i due si stanno separando, Pietro, estasiato, dice a Gesù: « Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia ». Mentre parla così una nube li copre e la paura li prende. Ma dalla nube una voce proclama: « Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo! ». Cessata la voce, Gesù rimane solo. Scendendo dal monte, Gesù intima loro di non riferire niente a nessuno di ciò che hanno visto.
Gesù, con la sua trasfigurazione, rivela il mistero della sua identità e della sua gloria, dell’intimità che egli vive ««con il Padre e in cui Dio lo manifesta come Figlio, l’eletto, che gli uomini devono ascoltare: il Figlio è Parola del Padre, rivelazione visibile del Padre, inviato per realizzare il progetto di salvezza e redenzione dell’umanità. I segni del volto luminoso e la veste candida simboleggiano questa realtà divina, che non lo sottrae alla passione e alla morte. Con Mosè ed Elia, rappresentanti della legge, il primo, e della profezia, il secondo, Gesù discorre del suo imminente esodo che avverrà a Gerusalemme. Se nella visione celestiale, Gesù è e sarà contemplato, qui sulla terra, nella realtà della sua passione e morte, Gesù, come Figlio, deve essere ascoltato e imitato.