Con l'EUCARISTIA ringraziamo Dio per la salvezza operata da Cristo e per tutti i suoi doni.
13 OTTOBRE – XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO.
Nell’Eucaristia che celebriamo noi, comunicando con il Corpo e Sangue di Gesù, ci alimentiamo alla stessa vita del Figlio di Dio. Più che di un rito esteriore o dell’assunzione dei simboli di Cristo, noi ci nutriamo del Corpo e del Sangue del Signore, della sua stessa Persona, realmente presente nel pane e nel vino, per opera dello Spirito Santo che viene invocato.
Dobbiamo allora prepararci degnamente a questo « banchetto della vita eterna ». Bisogna indossare l’abito nuziale, cioè essere nella grazia e nella carità di Dio e dei fratelli. E per questo, al Signore che scruta i pensieri e i sentimenti del cuore dell’uomo, prima di partecipare a questo banchetto, chiediamo perdono per le nostre colpe, per liberarci delle nostre ricchezze illusorie e poterci arricchire della sua presenza divina.
Nella preghiera della Colletta diciamo al Signore: « O Dio, fonte della vita temporale ed eterna, fa ‘ che nessuno di noi ti cerchi solo per la salute del corpo: ogni fratello in questo giorno santo torni a renderti gloria per il dono della fede, e la Chiesa intera sia testimone della salvezza che tu operi continuamente in Cristo tuo Figlio ».
Prima Lettura: 2 Re 5,14-17.
Viene narrata, in questa prima lettura dal Libro delle Cronache, la guarigione dalla lebbra del siro Naamàn, comandante dell’esercito del re di Aram. Costui, dopo essersi rifiutato di eseguire la parola del profeta Eliseo, convinto dai suoi servi, si immerse per sette volte nel Giordano, come gli aveva comandato il profeta e fu purificato dalla lebbra. Ritornato allora dal profeta, stando davanti a lui gli disse: « Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele. Adesso accetta un dono dal tuo servo ». Ma Eliseo gli rispose: « Per la vita del Signore, alla cui presenza io sto, non lo prenderò ». E pur insistendo Naamàn, il profeta rifiutò. Davanti a tale categorico rifiuto, chiese al profeta almeno di caricare quanta terra del luogo poteva portare una coppia di muli, perché non intendeva compiere più altri olocausti in sacrificio ad altri dei, ma solo al Signore. Per la sua fede e umiltà Naamàn viene purificato avendo eseguito il comando del profeta di bagnarsi per sette volte nel Giordano. Il profeta, non accettando nessun dono, esprime il distacco dell’uomo di Dio da ciò che potrebbe essere un segno di ringraziamento per lui e manifesta che egli è solo strumento della grazia del Signore, solo al quale bisogna rendere grazie e servire, riconoscendolo come il Signore di tutti e di tutto il creato.
Seconda Lettura: 2Tm 2,8-13.
Paolo scrive a Timoteo di ricordarsi di Gesù Cristo, risorto dai morti e discendente di Davide, come egli annunzia nel suo Vangelo, e per il quale, come un malfattore, soffre in catene. E poiché la parola di Dio non può essere incatenata, egli sopporta tutto, perché quelli che Dio ha scelti raggiungano la salvezza in Cristo Gesù e partecipino della sua gloria.
« E’ degna di fede - scrive san Paolo - questa parola: Se moriamo con lui, con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure i rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso ». Paolo e qualunque altro apostolo, nell’annunzio del Vangelo, pur non essendo esenti dalla sofferenza o dalle catene, come lui, non possono lasciarsi deprimere e scoraggiare, sicuri che la parola di Dio è efficace e non può essere imprigionata. Anzi, ed ecco il paradosso, è vantaggiosa per i credenti, perché è via per la salvezza degli eletti. I discepoli del Signore per partecipare alla gloria del Cristo devono passare per questa condizione: perseverare fedelmente fino a morire, se necessario, con Gesù e per Gesù.
Vangelo: Lc 17,11-19.
Il brano evangelico della Parola di Dio ci narra della guarigione operata da Gesù, mentre attraversa la Samaria e la Galilea, nel suo viaggio verso Gerusalemme. Gli vengono incontro dieci lebbrosi, che fermatisi a distanza, come prescrivevano le norme, gridano a Gesù dicendo: « Gesù, maestro, abbi pietà di noi! ». Gesù, vedendoli, dice loro: « Andate e presentatevi ai sacerdoti ». E mentre se ne vanno, sono purificati. Uno di loro, un samaritano, vistosi guarito, torna a lodare Gesù prostrandosi ai suoi piedi, per ringraziarlo. Gesù, allora, rivolto agli astanti, dice: « Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero ». Poi, rivoltosi a quell’uomo guarito dice: « Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato! ». La fede sincera, che ottiene da Dio ciò che gli chiediamo se conforme alla sua volontà, ha anche insito il sentimento del ringraziamento a Lui per i suoi molteplici doni. Ma spesso, indaffarati e occupati come siamo nelle nostre quotidiane faccende, o peggio nei nostri peccati, non ci accorgiamo dei suoi benefici e dimentichiamo il dovere di rendere grazie per quello che il Signore ci dona. Il lebbroso guarito, che torna indietro lodando Dio per la guarigione fisica e ringrazia Gesù, riceve anche la guarigione spirituale della salvezza. Il lebbroso, ritenuto come samaritano, ostile ai galilei e ai giudei, ci insegna che davanti a Dio solo una fede sincera ci fa ottenere dal Signore i suoi doni, specie quello più grande e spirituale del perdono dei peccati e della salvezza, e ad esserne riconoscenti.
La lebbra, malattia che colpisce il nostro corpo, specie negli arti, rendendo insensibile la nostra carne a qualunque stimolo esterno del caldo e del freddo o altro, è simbolo dei peccati di egoismo, di superbia, di chiusura su noi stessi, ecc., che si insinuano nel nostro spirito in maniera impercettibile, senza che ce ne accorgiamo, e ci rendono via via insensibili alle realtà spirituali di Dio, a quelle umane e sociali dei fratelli e anche al nostro vero bene. Per questa realtà di male quale guarigione siamo disposti a ricercare? Solo quella che può esserci data dalle scienze umane o anche quella spirituale che, nella fede, può darci solo Colui che guarisce nello spirito? Non dovremmo forse ricercare e chiedere entrambe?
La fede nel Signore in cui crediamo, fiduciosi nel perdono di Dio, ci faccia chiedere una completa guarigione di tutti i nostri mali, restituendoci la salvezza spirituale che ci renda sensibili all’amore di Dio e dei fratelli, al perdono reciproco e alla fraternità, al rispetto e all’accoglienza vicendevole di tutti coloro che ci tendono la mano e chiedono il nostro aiuto.
Ultimo aggiornamento (Sabato 12 Ottobre 2019 10:34)
Gli apostoli al Signore Gesù chiedono di accrescere in loro la fede.
6 OTTOBRE – XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO.
Nel giorno del Signore, la comunità cristiana è riunita dal Padre attorno a Gesù Cristo, uniti dallo Spirito del Padre e del Figlio. Preghiamo non un Dio lontano, anonimo, ma ci rivolgiamo a Lui con la confidenza e la fiducia di figli. L’amore del Padre ci avvolge con la sua misericordia e ci dona le grazie, che vanno al di la dei nostri desideri e dei nostri meriti.
Nella preghiera della Colletta ci rivolgiamo a Dio con queste parole: « O Padre, che ci ascolti se abbiamo fede quanto un granello di senape, donaci l’umiltà del cuore, perché cooperando con tutte le nostre forze alla crescita del tuo regno, ci riconosciamo servi inutili, che tu hai chiamato a rivelare le meraviglie del tuo amore».
Prima Lettura: Ab 1,2-3.2,2-4.
Il profeta Abacuc si rivolge al Signore chiedendogli perché non risponde alle sue implorazioni e non lo ascolta quando grida: « Violenza! » e non salva. Ancora. Vede l’iniquità e sta solo a guardare l’oppressione che gli uomini fanno agendo con violenze, rapine, liti e contese gli uni verso gli altri. Il Signore allora gli risponde dicendo di scrivere e incidere sulle tavolette la “ visione ” perché la si possa leggere facilmente. Essa attesta un termine e una scadenza, e se anche indugiasse, bisogna attenderla perché non tarderà ad avverarsi: « Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede ». Davanti al male, alle ingiustizie e ai disordini perpetrati dagli uomini del suo tempo, il profeta si lamenta davanti al Signore, come forse anche noi, a volte, facciamo. Il Signore ci risponde dicendo che bisogna avere fede in lui e attendere il compimento del suo disegno, nonostante il male che il profeta vede fare al re Ioachim, e noi gli uni verso gli altri. Non dubitare e avere fede ci fa conseguire la salvezza.
Seconda Lettura: 2 Tm 1,6-8.13-14.
L’Apostolo Paolo ricorda a Timoteo di ravvivare il dono di Dio ricevuto con l’imposizione delle mani avendo ricevuto uno spirito non di timidezza ma di forza, di carità e di prudenza. Lo esorta a non vergognarsi della testimonianza che deve dare al Signore Gesù né di lui. Gli chiede, inoltre, con la forza di Dio, di soffrire per il Vangelo, come fa lui che è in carcere per il Signore; di prendere come modello: « I sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore, che sono in Cristo Gesù » e di custodire: « Mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato ».
Nell’esercizio del suo ministero episcopale, Timoteo non deve farsi vincere dalla timidezza, dalla paura, ma deve agire e perseverare nell’annunzio del Vangelo, con la forza che proviene dallo Spirito di Dio, ravvivando il « dono » ricevuto con l’imposizione delle mani e prendendo parte alle sofferenze dell’apostolo « per il Vangelo ». L’impegno apostolico e la custodia del Vangelo comportano spesso sofferenze e passione, ma lo Spirito del Signore rende testimoni fiduciosi e pieni di coraggio, come assicura Gesù.
Vangelo: Lc 17,5-10.
Alla richiesta fatta a Gesù dagli apostoli di accrescere la loro fede, egli risponde loro dicendo: « Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “ Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe ».
Poi, attraverso l’esempio di un padrone che al servo, che rientra dal lavoro nei campi o dal pascolo, non gli dice: « “Vieni subito e mettiti a tavola ”, ma piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu ”, e per questo non dovrà aver gratitudine verso quel servo perché ha eseguito gli ordini ricevuti », Gesù dice agli apostoli: « Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”». Senza la fede dice Gesù agli apostoli non si può essere suoi discepoli. Il valore e la preziosità della fede, anche se in modica quantità, purché autentica, può ottenere cose prodigiose. Essa ci mette in contatto con la potenza di Dio e ci fa realizzare ciò che chiediamo. Ma Gesù ci dice ancora che dopo aver assolto con diligenza, perseveranza e “scrupolosità” ai nostri doveri per Lui e per il Vangelo e al servizio dei fratelli, dobbiamo tutti considerarci servi inutili, che non si vantano e non accampano pretese su nessuno e che la salvezza che si consegue non si fonda sui nostri meriti, ma è solo dono della bontà e della grazia del Signore.
L'ATTENZIONE AI POVERI COME UNA VERIFICA DELLA NOSTRA FEDE.
29 SETTEMBRE – XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO.
La domenica siamo invitati da Dio, riuniti nel nome della Santa Trinità, a prendere parte al memoriale della passione, morte e risurrezione del suo Figlio. Nella sua misericordia Dio manifesta la sua onnipotenza donandoci il suo perdono. Pur essendo noi peccatori, il Padre celeste ci accoglie e ci fa partecipi del banchetto eucaristico del Corpo e del Sangue del suo Figlio, che sono cibo e bevanda di vita eterna. Attorno a Cristo, assisi alla stessa mensa, non possiamo più ammettere l’ingiustizia, il disprezzo verso qualunque fratello. Non possiamo sentirci tranquilli restando nel nostro egoismo e non condividendo la provvidenza di Dio con chi è nel bisogno. L’Eucaristia ci fa aprire verso i beni dell’eredità eterna che godremo con Cristo nel cielo, ma che già pregustiamo in questo convito domenicale. Da questa sorgente deriva per la Chiesa ogni benedizione.
Nella Colletta iniziale dell’Eucaristia ci rivolgiamo al Padre celeste dicendo:« O Dio, tu chiami per nome i tuoi poveri, mentre non ha nome il ricco epulone; stabilisci con giustizia la sorte di tutti gli oppressi, poni fine all’orgia degli spensierati, e fa’ che aderiamo in tempo alla tua Parola, per credere che il tuo Cristo è risorto dai morti e ci accoglierà nel suo regno ».
Prima Lettura: Am6,1.4-7
Il profeta Amos denunzia il comportamento spensierato degli abitanti di Sion e di quelli di Samaria, minacciando guai per la loro mollezza di vita, perché comodamente sdraiati nelle mollezze e nei divertimenti « mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla ». Si divertono cantando e imitando Davide con improvvisati strumenti musicali, bevendo vino e ungendosi di profumi raffinati, mentre trascurano e non si curano della rovina di Giuseppe, cioè dei poveri del popolo del Signore. Preannunzia ad essi l’esilio e così si porrà fine all’orgia dei dissoluti. Il profeta denunzia con vigore le ingiustizie sociali, i divertimenti e i bagordi che offendono la povertà dei miseri del popolo, a cui Dio farà giustizia..
Seconda Lettura: 1Tm 6,11-16.
Paolo esorta Timoteo a praticare la giustizia, la pietà, la fede , la carità, la pazienza e la mitezza, cercando così di raggiungere la vita eterna a cui è chiamato e per la quale ha fatto la sua professione di fede.
Gli ordina ancora, davanti a Dio, creatore che dà la vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che davanti a Ponzio Pilato ha dato la sua bella testimonianza, a conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore Gesù, « che sarà a noi mostrata da Dio, il beato e unico Sovrano, il Re dei re e Signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità e abita una luce inaccessibile » e che nessuno tra gli uomini ha mai visto. Come guida della Comunità di fede, Timoteo deve, quindi, farsi modello con una condotta mite, caritatevole, ma battagliero nella propa- gazione e difesa della fede, dandone bella testimonianza e conservando integro e intatto il Vangelo, fino alla venuta del Signore, quando si manifestarà nella sua gloria.
Vangelo: 16,19-31.
La parabola del ricco epulone, raccontata da Gesù, pone una netta contrapposizione tra la vita di un « uomo ricco che indossa vestiti di porpora e bisso, ogni giorno banchetta lautamente » e del « povero Lazzaro che, stando davanti alla sua porta, coperto di piaghe, è bramoso di sfamarsi con quello che cade dalla tavola del ricco ». Morendo entrambi, il povero viene condotto dagli angeli accanto ad Abramo, mentre il ricco, sepolto, ritrovandosi « negli inferi fra i tormenti », alzando gli occhi, vede da lontano Abramo e Lazzaro insieme. Sentendosi la gola riarsa per la sete, invoca Abramo perché abbia pietà di lui e che mandi Lazzaro ad intingere il dito nell’acqua per bagnargli la lingua. Ma Abramo gli risponde che egli nella sua vita ha ricevuto molti beni mentre Lazzaro i suoi mali e che, ora, questi è consolato e lui si trova in mezzo ai tormenti; che, inoltre, è impossibile a Lazzaro, per il gran abisso che li separa, di poter andare da lui a compiere quello che desidera. Alla richiesta del ricco che insiste perché Lazzaro venga mandato dai suoi fratelli, i quali vivono come aveva fatto lui, per ammonirli severamente a cambiar vita, per non ritrovarsi anche essi negli stessi tormenti, Abramo risponde che hanno Mosè e i profeti e che ascoltino loro. Infine, poiché il ricco replica che i suoi fratelli, vedendo Lazzaro risorgere, si sarebbero convertiti e cambiato vita, Abramo risponde:« Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorge dai morti ». La parabola di Gesù, in sintonia con l’insegnamento di Amos, pone la sorte dei poveri rispetto ai ricchi, che banchettano e godono in questa vita e si danno spensierati ad ogni sorta di divertimento, in un contrappasso e in un rovesciamento di situazioni irreversibili. Ascoltando la parola del Signore che esorta a usare le ricchezze e i beni con distacco, avendo attenzione per i fratelli che sono in necessità e un cuore libero e aperto ai veri segni di Dio, anche il ricco può ritrovarsi nella gioia futura della vita ultraterrena.
La ricchezza è una continua tentazione che può spingere ad attaccarvi il cuore, farlo chiudere nell’egoismo e in una cecità che non fa più vedere le necessità in cui versano i fratelli più poveri, privi, spesso, anche dell’estremo necessario..
AVVISI PER LA VITA PARROCCHIALE
30 Settembre - Apertura dell’anno pastorale della Diocesi a Nicosia:
Non sarà celebrata la Santa Messa Vespertina.
1 Ottobre - La santa Messa sarà anticipata alle ore 18.30.
4 Ottobre - NOVENA DELLA MADONNA DELLA CATENA:
Venerdì - ore 17.00 - Recita del Santo Rosario.
“ 17.30 - Celebrazione della Santa Messa.
Il primo giorno è dedicato ai BAMBINI BATTEZZATI in questi anni e ai BAMBINI DELLE CLASSI DI CATECHISMO.
Il Parroco.
LIBERACI, O SIGNORE, DALL'AVIDITA' DELLA RICCHEZZA.
22 SETTEMBRE -XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Il nostro incontro domenicale, nel giorno del Signore, rivela l’amore verso Dio, vissuto in unione con Cristo, nostro Capo e Signore, e verso il nostro prossimo. Questo amore è stato posto da Gesù a fondamento di tutta la legge. Nell’Eucaristia esprimiamo la nostra adorazione di figli a Dio, riconoscendolo come unico Signore, riaffermiamo la nostra volontà di non sostituire niente a Lui e di rinnovare, nel giorno a lui dedicato, il nostro amore di figli e di fratelli. Mancando di questo amore, per Dio e i fratelli, è difficile vivere la domenica con una fraternità attiva e creativa, per cui la si sente come un obbligo gravoso, e non come lode a Dio e servizio evangelico. Diventa allora la Domenica una verifica e un modo per misurare l’autenticità della nostra fedeltà al Signore e della nostra fraterna carità verso il prossimo. Nell’incontro con Dio, i misteri che celebrano la salvezza, operata da Cristo, dovrebbero trasformare la nostra esistenza.
Nella preghiera che oggi, giorno del Signore, eleviamo a Dio, diciamo: « O Padre, che ci chiami ad amarti e servirti come unico Signore, abbi pietà della nostra condizione umana; salvaci dalla cupidigia delle ricchezze, e fa’ che alzando al cielo mani libere e pure, ti rendiamo gloria con tutta la nostra vi- ta».
Prima Lettura: Am 8,4-7.
Il Signore, per mezzo del profeta Amos, rimprovera quelli che nel suo popolo calpestano il povero e sterminano gli umili e si domandano quando passa il novilunio per vendere il grano; o il sabato per poter smerciare il frumento, diminuendo l’efa, aumentando il siclo, usando bilance false, comprando con denaro gli indigenti o il povero per un paio di sandali e vendendo lo scarto del grano. Per tutto questo il Signore dice:« Certo, non dimenticherò mai tutte le loro opere ».
Imbrogliare, approfittare e calpestare il povero nei momento del suo bisogno è per il Signore peccato gravissimo, perché è Dio stesso a proteggere il povero, difendendolo dalle angherie di chi con denaro vuole sfruttarlo. L’amore per Dio e l’amore al prossimo non può scindersi: chi offende e fa ingiustizia al prossimo, specie se povero e umile, offende Dio stesso.
Seconda Lettura: 1 Tm 2,1-8.
Paolo raccomanda a Timoteo soprattutto che si facciano a Dio domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che governano, perché si possa condurre una vita tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio. Tutto questo è cosa bella e gradita a Dio, affinché tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità: perché uno solo è Dio e uno solo il mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che è morto per riscattare tutti gli uomini dalle loro iniquità. Lui, Paolo, è stato fatto banditore e apostolo di questa testimonianza che Cristo ha dato nei tempi stabiliti, divenendo maestro dei pagani nella fede e nella verità. Chiude la sua esortazione concludendo: « Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure , e senza contese ». All’unico Dio, padre di tutti, che ha riconciliato a sé l’umanità, mediante Cristo Gesù, suo Figlio, unico mediatore, che si è offerto per la liberazione dei uomini dal peccato, si elevino preghiere, suppliche e ringraziamenti da parte di tutti coloro che partecipano alla preghiera della comunità cristiana, perché la vita degli uomini si svolga nella serenità e nella pace. Bisogna allora allontanare contese, liti e scontri, cose che producono solo divisioni e non fanno realizzare l’amore che ci rende fratelli in Cristo e figli di un unico padre.
Vangelo: Lc 16,1-13.
Il Vangelo, attraverso la parabola dell’amministratore infedele, vuole esortarci a vivere il rapporto con Dio, che ci dà da amministrare i suoi doni: la nostra vita, le nostre capacità e ciò che la sua provvidenza ci concede, per la sua gloria senza servire lui e altri idoli, come il denaro, il potere, ecc.
A Dio tutti dobbiamo rendere conto dell’amministrazione di questi beni.
L’amministratore della parabola, pensando che, una volta esonerato dall’amministrazione, si sarebbe trovato in difficoltà, non sapendo fare altro per guadagnarsi la vita, si fa degli amici, in maniera iniqua, con la ricchezza del padrone e, riducendo ciò che essi devono al suo padrone, spera un domani di essere accolto e aiutato da loro. Gesù, concludendo la parabola, dice che il padrone lodò la scaltrezza di quell’amministratore disonesto e che i figli di questo mondo, verso i loro pari, sono più scaltri dei figli della luce. Infine esorta gli ascoltatori a farsi degli amici con la ricchezza disonesta aiutando gli altri, come ha fatto quell’amministratore, perché quando i beni amministrati verranno meno, si possa essere accolti nelle dimore eterne da coloro che sono stati aiutati nella nostra esistenza. Concludendo così Gesù il suo insegnamento dice: « Chi è fedele in cose da poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra ».
Anche i discepoli del Signore devono essere scaltri quindi, non con la disonestà, ma cercando di farsi degli amici distribuendo le ricchezze e ponendo i beni che siamo chiamati ad amministrare al servizio dei fratelli: essi allora intercederanno per loro presso Dio, quando chiamati in giudizio, testimonieranno della carità vissuta nel loro confronti. Amministrare bene i doni del Signore significa ricevere un giorno i beni veri ed eterni.
RALLEGRATEVI, PERCHE' HO RITROVATO LA MONETA PERDUTA.
15 SETTEMBRE – XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO.
Nell’ Eucaristia, ricevendo il Corpo e il Sangue di Cristo, i cristiani entrano in comunione con lo Spirito Santo, che rende presente nel pane e nel vino il loro Signore.
La potenza di Cristo e l’azione del suo Spirito trasformano non solo questi doni ma anche noi e, con i nostri sentimenti, le nostre tendenze, veniamo trasfigurati in lui. E’ lo Spirito Santo, che viene invocato nelle preghiere eucaristiche, a trasformare i nostri semplici doni nel Cristo e raccogliere e formare anche la Chiesa, unendola a lui in maniera intima.
L’assemblea liturgica, attraverso il perdono che viene chiesto, è rigenerata con un cuore nuovo dallo Spirito, che apre i credenti al pentimento e alla conversione e dà loro la forza di perdonare a loro volta e di dare la vita per salvarla, come fa Cristo. Il dono dello Spirito non è meritato da noi ma dall’intercessione del Signore Gesù, mediatore di grazia , che ci unisce a sé quando nel suo nome siamo riuniti per rendere grazie al Padre.
Nella colletta iniziale, rivolti al Signore lo supplichiamo dicendo: « O Dio, che per la preghiera del tuo servo Mosè non abbandonasti il popolo ostinato nel rifiuto del tuo amore, concedi alla tua Chiesa per i meriti del tuo Figlio, che intercede sempre per noi, di far festa insieme agli angeli anche per un solo peccatore che si converte ».
Prima Lettura: Es 32,7-11.13-14.
Mentre Mosè è sul monte, il Signore gli dice di scendere perché il popolo, liberato dall’Egitto, si è pervertito, si è allontanato dalla via indicata da Lui avendosi fatto un vitello d’oro, davanti al quale offre sacrifici, e gli attribuisce la liberazione dalla schiavitù. Ancora: il Signore dice a Mosè che il popolo è di dura cervice e, perciò, nella sua ira, ha deciso di distruggerlo, mentre di lui ne avrebbe fatto una grande nazione.
Mosè, allora, si rivolge al Signore supplicandolo: « Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto…? Ricordati di Abramo, di Isacco, di Giacobbe…ai quali hai giurato per te stesso e hai detto” Renderò la vostra posterità numerosa… e tutta questa terra la darò ai tuoi discendenti che la possederanno per sempre ». Così il Signore si pente del male che ha minacciato di fare al popolo.
Davanti all’infedeltà e alla pervertimento del popolo, oggetto della sua predilezione, che si è dato ad adorare un vitello, il quale non è così esigente come lo è il Dio dell’alleanza, il Signore, per la preghiera di Mosè, storna la sua ira, perché la sua misericordia è più grande e più forte: Dio per la sua promessa di salvezza e in ricordo dell’alleanza, accogliendo l’intercessione di Mosè, concede il suo perdono. Ora che con la nuova ed eterna alleanza in Cristo, mediante il suo sacrificio sulla croce, è stabilita l’universale riconciliazione dell’umanità con il Padre, dobbiamo aver fiducia nel suo perdono e nella sua grande misericordia. Nella Messa, memoriale che realizza nel tempo della Chiesa, per opera dello Spirito e della potenza di Dio, la salvezza, è il Figlio stesso che intercede presso il Padre per la remissione dei peccati e per essere partecipi delle benedizioni celesti.
Seconda Lettura: 1Tm 1,12-17.
San Paolo, scrivendo a Timòteo e ricordando la sua vita di bestemmiatore, persecutore e violento, ringrazia Cristo Gesù che lo ha reso forte e, nella sua misericordia, lo ha giudicato degno di porlo al suo servizio. Mentre nel suo agire precedente era prevalsa l’ignoranza e la lontananza dalla fede, ora la grazia di Cristo ha sovrabbondato in lui insieme alla fede e alla carità. Così egli proclama che tutti debbano accogliere Cristo Gesù, venuto nel mondo per salvare i peccatori, di cui egli si riconosce, per la sua vita passata, di esserne il primo. Avendo, quindi, dal Signore ottenuto misericordia per la sua conversione a lui, Gesù ha voluto in lui, per primo, dimostrare tutta la sua magnanimità, perché fosse « di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna ». Paolo riconosce che il ministero di apostolo, affidatogli direttamente da Cristo, è una grazia singolare: proclamare la magnanimità del Signore, speranza di salvezza per tutti gli uomini peccatori. Per questo l’apostolo esorta a rendere onore e gloria al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio nei secoli dei secoli.
Vangelo: Lc 15,1-32.
Gesù, davanti alle mormorazioni di farisei e scribi perché accoglie i peccatori e mangia con loro, racconta la parabola del pastore che, contando le pecore e accorgendosi che ne manca una, lascia al sicuro nell’ovile le novantanove e va in cerca della smarrita e trovatala, pieno di gioia se la pone sulle spalle, va a casa, invita amici e vicini, e dice: « Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che era perduta »; della donna che, se ha dieci monete e ne perde una, accende la lampada, spazza la casa e la cerca accuratamente finché non la trova e trovatala chiama amiche e vicine e dice: « Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduta ». Infine Gesù racconta la parabola del « Figlio prodigo », che, chiedendo al padre di dargli la sua parte di eredità e allontanandosi dalla casa paterna, sperpera tutto il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Trovandosi quindi nel bisogno, ridotto in estrema povertà, si mette al servizio di uno degli abitanti della regione che lo manda a pascolare i porci e avrebbe voluto, per la fame, saziarsi delle carrube; ma nessuno gli dava nulla. Ripensando infine all’abbondanza che vi era nella casa del padre e a lui che muore di fame, decide di alzarsi, ritornare da suo padre e dirgli, pentito, di aver peccato verso il Cielo e davanti a lui, di non essere più degno di essere chiamato suo figlio e di essere trattato come uno dei tanti salariati. Così, alzandosi, decide di tornare da suo padre. Quando questi lo scorge da lontano, vedendolo, ne ha compassione, gli corre incontro, gli si getta al collo e lo bacia. Ai servi ordina di vestirlo con il vestito più bello, mettergli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Ancora: di prendere un vitello grasso, ammazzarlo per mangiare e far festa, perché: « mio figlio – dice - era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato ».
Ma il figlio maggiore, saputo il motivo della festa organizzata per il ritorno del fratello, che è ritornato sano e salvo, non ascoltando neanche la supplica del padre, non vuole entrare a far festa. Inoltre, dice al padre che, pur essendo lui sempre in casa, avendolo servito da tanti anni e non averlo mai disobbedito, non gli ha mai dato un capretto per far festa con i suoi amici, mentre invece per il figlio, che ha dilapidato e divorato le sue sostanze con le prostitute, per lui ha ammazzato il vitello grasso. Il padre gli risponde:« Biso- gnava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato ».
Conclude Gesù le parabole dicendo che « ci sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione …. E che vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte ».
L’amore di Dio Padre è disposto a perdonare, nella sua misericordia, qualunque peccato che ci allontana da lui, purché si ritorni a lui sincera- mente pentiti.
Dio viene incontro all’uomo, che si allontana da lui con il peccato. Con la premura del pastore cerca, trova e porta la pecorella smarrita all’ovile; si dà da fare con la preoccupazione e l’ ansia di quella donna che non si dà pace finché non ci riporta al suo amore; che ci aspetta, con la tenerezza invincibile del padre finché, come figli prodighi, non ritorniamo al suo abbraccio e, ricolmandoci di tutti i suoi beni, ci riporta alla dignità di figli. Il comportamento del Padre celeste, come anche il perdono che Gesù dà, nel suo potere divino, ai peccatori e che la Chiesa è chiamata ad esercitare per suo comando, può suscitare, in coloro che si credono, illudendosi, di essere giusti, scandalo. Invece Gesù esorta coloro che vogliono essere veramente giusti e amorevoli verso i fratelli, come lo è Dio, a gioire perché i peccatori si convertono e a chiederci se peccatori non lo siamo proprio noi. E se ci convertiamo avremo accresciuto la gioia in cielo.