PENTECOSTE: EFFUSIONE DELLO SPIRITO PROMESSO E L'INIZIO DELLA CHIESA.
31 MAGGIO – SOLENNITA’ di PENTECOSTE.(Anno A).
Lo Spirito vi renderà miei testimoni.
In questa solennità, che porta a compimento il mistero pasquale, per i credenti e per tutti coloro che lo accolgono, si realizza ciò che Gesù promise nell’ultima Cena, assicurandoci che non ci avrebbe lasciati soli, ma che avrebbe, salito al Padre, inviato Il Consolatore, lo Spirito di verità. Lo Spirito, in questa liturgia, ci invita a vedere l’opera di Dio nel mondo e ci illumina, esorta e ci dà la forza di corrispondere al suo amore, portando ad una maggiore pienezza il cammino di fede. Questo giorno ricorda e attualizza, in ogni tempo e latitudine, la Pentecoste, il tempo nuovo della Chiesa, che accoglie lo Spirito e i suoi benefici effetti nella sua vita.
La Chiesa, corpo di Cristo, sostenuta dallo Spirito, meritato da Gesù in croce e inviato da lui risorto nel giorno di Pentecoste, cresce e si espande nel mondo. Nella comunità della nuova alleanza, costituita dallo Spirito, è presente il Signore e ad essa possono aggregarsi tutti i popoli che accolgono l’annunzio della salvezza, realizzando così il mistero pasquale, come afferma il prefazio: « Oggi hai portato a compimento il mistero pasquale e su coloro che hai reso figli di adozione in Cristo tuo Figlio hai effuso lo Spirito Santo ». In ogni sacramento agisce lo Spirito Santo. Lo Spirito inabita dentro di noi come alito di vita e, con le sue illuminazioni, ci suggerisce e dà impulso alle nostre azioni.
Accesi dal fuoco di questo Spirito, si alimenta in noi la comunione col Corpo e Sangue del Signore, comunione che si attua nella « carità ardente », di cui parla l’orazione sulle offerte della Messa vespertina della vigilia. Così lo Spirito, rinnovando il prodigio dell’unità, raccoglie gli uomini dispersi e, trasformando qualitativamente le nostre azioni, ci fa agire secondo la volontà di Dio e ci dona la consolazione nell’intimo, anche nei momenti difficili della testimonianza della fede.
La vita « spirituale » che ha come maestro e come suggeritore lo Spirito Santo, è quella che ci fa vivere da risorti a vita nuova nel tempo e permetterà di ridestarci, con i nostri corpi, nella risurrezione finale. Lasciarsi guidare dallo Spirito del Signore non è cosa eccezionale e, se ci affidiamo a lui, sarà un fatto semplice e sereno – pur se straordinario – di ogni giorno.
Ancora. L’evento della Pentecoste è significato nella colletta della Messa:« O Padre, che nel mistero della Pentecoste santifichi la tua Chiesa in ogni popolo e nazione, diffondi sino ai confini della terra i doni dello Spirito Santo, e continua oggi, nella comunità dei credenti, i prodigi che hai operato agli inizi della predicazione del Vangelo ». Lo Spirito Santo, che anima la comunità cristiana, porta per mezzo di essa il Vangelo di Gesù Cristo, ci introduce nella conoscenza del suo mistero e lo rende efficace. Lo Spirito, ancora, ci fa crescere nelle opere di giustizia , che compiamo per sua ispirazione ed energia, essendo stati da lui rinnovati nel cuore e resi giusti. La solennità della Pentecoste, concludendo il lungo e meraviglioso tempo pasquale che ci ha fatto meditare ed approfondire il mistero della morte e risurrezione del Signore, ci introduce nel tempo della Chiesa. Si realizza così in noi, in ogni giorno dell’anno liturgico, con la presenza dello Spirito Santo, il mistero di morte e risurrezione del Signore, per cui conducendo la vita nuova di risorti, diveniamo sempre più conformi a Lui.
Prima Lettura: At 2,1-11.
I discepoli, obbedendo al comando di Gesù. hanno atteso lo Spirito Santo promesso, che si manifesta nel segno del fuoco : « apparvero lingue come di fuoco ». e della parola, perché, con la venuta dello Spirito, ha inizio l’evangelizzazione, l'annunzio delle « grandi opere di Dio », che si riassumono nell’avvenimento della morte e della risurrezione di Gesù. Sorprende che ognuno di coloro che si sono riuniti, dopo aver sentito« All’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, che riempì tutta la casa dove stavano », pur essendo di diverse nazionalità, sentì la gioiosa proclamazione nella propria lingua nativa del messaggio degli apostoli, pur essendo dei Galilei a parlare. La pretesa degli uomini che tentarono di scalare il cielo nella costruzione della torre di Babele e il castigo della confusione sono vinti con la proclamazione del Vangelo. La fede, annunziata a popoli, lingue, tradizioni diverse, crea l’unità, perché tutti sono chiamati a diventare figli di Dio, come proclama la liturgia del prefazio: « la confusione che la superbia aveva portato tra gli uomini è ricomposta in unità dallo Spirito Santo ». Siamo, oggi, chiamati a essere cooperatori di unità, ad allontanare ogni atteggiamento che alimenta la discordia e, se rompiamo il cerchio che ci chiude in noi stessi, sapremo uscire verso gli altri e creeremo comunione.
Seconda Lettura: 1 Cor 12,3-7.12-13.
San Paolo, in questo brano 1a Corinti, descrive quali sono le funzioni dello Spirito Santo. La prima e fondamentale, è che, sotto la sua azione, nessuno può dire: « Gesù è Signore » , il Figlio di Dio risorto e glorioso, se non sotto l’azione dello Spirito Santo, che ci disvela l’intimo mistero di Cristo. Dall’unico Spirito poi derivano nella Chiesa i vari carismi e i diversi doni, che, pur essendo diversi come espressione, tutti hanno la stessa origine, dallo Spirito che li dona e l’identico fine: quello di edificare la comunità cristiana. L’apostolo quindi offre alla Chiesa i criteri per riconoscerli in ogni situazione: nessuno li possiede tutti, ma ciascuno ne possiede qualcuno. Il criterio più importante per discernerli è che sono doni dati non perché servano alla nostra vanagloria, ma al « bene comune »: se edificano e fanno crescere la comunità sono dallo Spirito, come avviene delle diverse membra del corpo, le quali, con le varie funzioni, sono tutte destinate al benessere del corpo; se invece dividono, frazionano, creano partiti e gruppi di pressione, se smembrano la comunità, non sono dallo Spirito. Essi ci vengono dati nel Battesimo dall’identico e unico Spirito. Non bisogna farsi affascinare troppo dai carismi più evidenti, perché possono esserci carismi grandi e importanti nell’ordinarietà della vita e che spesso vengono sottovalutati. San Paolo, con le sue considerazioni, ci spinge a collaborare con generosità e con gratuità nella comunità cui apparteniamo, non guardando agli interessi o al ricavo personale come unico scopo del nostro lavoro; a mettere volentieri in comune i doni che Dio ci ha fatto; e a far contenti gli altri. Vari sono allora i modi con cui possiamo vivere la dimensione comunitaria della fede e della esperienza cristiana.
Vangelo: Gv 20,19-23.
Secondo Giovanni la stessa sera di Pasqua Gesù risorto effonde sui discepoli lo Spirito Santo. Ormai Gesù era stato glorificato, e quindi aveva il potere di effondere il Dono di Dio per eccellenza, il « primo Dono » ai credenti.
Questa effusione pasquale dello Spirito sugli apostoli e il racconto della Pentecoste, pur essendo episodi diversi, realizzano la promessa fatta da Gesù nella Cena: di non lasciarli orfani e di inviare lo Spirito. E se l’episodio pasquale, a porte chiese, vuole, con il dono dello Spirito, far allontanare dagli apostoli la paura e l’incredulità, assicurando loro la presenza costante di Gesù nella loro vita e in quella della comunità, la Pentecoste, rende presente il Dono per tutti gli uomini, che così potranno essere radunati da ogni parte del mondo in unità, esprimendo la molteplicità dei linguaggi con cui sarebbe stato annunciato e testimoniato il Vangelo della salvezza universale, operata da Gesù e attuata, per il ministero della Chiesa, dallo Spirito del Signore.
Gesù, con il dono della pace pasquale augurata ai discepoli mostrando le sue piaghe, vuole mostrare che la via della passione, assunzione del male che affligge l’uomo, e della risurrezione, sconfitta totale e definitiva di esso, è il percorso che deve essere seguito per conseguire la pace vera, quella che solo lui può dare e non come la dà il mondo.
Augurando per la seconda volta la pace ed effondendo lo Spirito, Gesù vuole consegnare alla Chiesa il principio per la remissione dei peccati: come conseguenza della sua vittoria sul male; donare la pienezza di ogni benedizione divina e il potere di perdonare i peccati, perché il male, i conflitti e le tribolazioni non possono rendere inefficace la salvezza, che è dono, e nella quale riposa la speranza cristiana. La Chiesa, quindi, è a servizio dello Spirito per il perdono. Potrà anche non rimettere i peccati quando manchi la conversione del cuore, senza della quale la porta allo Spirito rimane chiusa.
Gesù, soffiando lo Spirito e richiamando l’azione creativa di Dio della Genesi, instaura nei discepoli e nel mondo una nuova creazione, inaugurata dalla sua risurrezione, di cui godono e fanno parte per grazia tutti coloro che credono. Con lo Spirito donato inizia, come continuazione della sua, anche la missione della Chiesa, che si esplica nell’annunzio del perdono di cui ha fatto esperienza. Questa missione inizia con la Pentecoste, nuova effusione dello Spirito, quando gli apostoli parlano varie lingue e tutti i presenti odono e comprendono il messaggio da loro annunziato: messaggio unico e uguale nei secoli ma esprimibile in modo che possano comprenderlo, perché destinato a tutti, anche se ognuno dovrà sentirselo dire in modo a lui comprensibile. Spetta poi agli evangelizzatori essere creativi ed esprimerlo con modi e formule adeguate ai tempi.
Molti sono i modi con cui possiamo invocare e ricevere lo Spirito del Signore, ma dall’Eucaristia – sacramento del Corpo di Cristo – continua in particolare a esserci dato lo Spirito di Gesù. Nell’orazione dopo la comunione chiederemo:« la partecipazione alla tua mensa, o Padre, ci comunichi il fervore dello Spirito ». Del resto è lo Spirito Santo che rende presente Gesù Cristo nell’Eucaristia.
Ultimo aggiornamento (Sabato 06 Giugno 2020 17:37)
Ascendendo al cielo, Gesù porta con sè la nostra umanità.
24 MAGGIO – SOLENNITA’ DELL’ ASCENSIONE DEL SIGNORE
Gesù, che ha vinto il peccato e la morte, ci dice la liturgia del prefazio di questa solennità, «ci ha preceduti nella dimora eterna, per darci la serena speranza che dove è lui, capo e primogenito, saremo anche noi sue membra, uniti nella stessa gloria »: e ciò dobbiamo tenerlo presente in ogni giorno della vita. Con Gesù, che con la sua umanità è presso il Padre, siamo già in qualche modo presenti anche noi, perché egli è il Capo del corpo di cui noi siamo membra. Possiamo quindi sperare la salvezza e la gloria eterna perché egli l’ha acquistata per sé e per noi. Noi – ci dice ancora il prefazio -poiché adesso ci è donata la grazia di Cristo che attende di maturare nella sua stessa gloria, non siamo lasciati soli. Con lui, che alla destra del Padre è nostro Intercessore e Mediatore, siamo già legati con Dio.
Ma se lungo il cammino terreno siamo presi dal dubbio e ci sentiamo smarriti nella ordinarietà e monotonia della nostra vita e di quella della Chiesa, non dobbiamo, però, credere che egli ci abbia abbandonato, perché la sua presenza, resa costante dallo Spirito inviato, ci accompagna nella missione nel mondo e ci fa attendere con fiducia e operosità il sua ritorno futuro, come dicono gli angeli nel momento in cui sale verso il cielo. Questa operosità dimostra il nostro impegno a vivere in maniera degna di essere accolti nella sua gioia di Signore risorto.
Nella Colletta dell’Eucaristia chiediamo a Dio: « Esulti di santa gioia la tua Chiesa, o Padre, per il mistero che celebra in questa liturgia di lode, poiché nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo, nostro Capo, nella gloria ».
Prima Lettura: At 1,1-11.
Gesù, dopo aver confermato i suoi discepoli nella certezza della sua risurrezione, di cui avevano dubitato in varie occasioni e, anche ora, in Galilea, sul monte, dove aveva loro indicato di recarsi « quando essi lo videro, si prostrarono », ma ugualmente dubitarono, egli sale al cielo. Non li abban- dona e non se ne allontana se non visibilmente, perché, dalla destra del Padre, invia lo Spirito, che , ricevuto da essi in pienezza, li rende fortificati per la testimonianza che devono rendere al Risorto. Lo Spirito del Padre e del Figlio accompagna i discepoli nella loro missione. Essi, però, nell’attesa della venuta gloriosa di Gesù non devono rimanere inattivi e non devono preoccuparsi di quando sarà la fine del mondo e il termine della storia. Egli assicura che ritornerà ed essi, in questo tempo di attesa, dovranno manifestare la loro testimonianza nel continuare l’opera del Maestro, specialmente nelle opere della fede e della carità, nelle quali dimostrano il desiderio di riunirsi al Signore.
Ma se da una parte la comunità del Signore, sempre lungo la sua storia, come lo fu dall’inizio, può sperimentare momenti e fatti che non l’hanno resa splendida Sposa di Cristo, dall'altra ha anche molte pagine di testimonianza discreta e, oggi, con frequenza, eroica di tanti martiri. D’altronde Gesù stesso lo aveva detto: « Sarete perseguitati, ma riceverete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra » (At 1,8-9). Così la Chiesa, pur fragile e ferita, può continuare a dare speranza agli uomini e ognuno trovare il proprio spazio di crescita umana e spirituale, poiché non è fatta di puri, ma è costituita come comunità, che nel nome del Signore accoglie i peccatori, i quali, pur zoppicando, si sforzano di imitarlo.
Seconda Lettura: Ef 1, 17-23.
Paolo scrive ai cristiani di Efeso e augura loro che il Dio del Signore Gesù dia loro uno« spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui: illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi, che crediamo ». Tutti i discepoli del Signore dobbiamo dunque aspettare un’eredità, anche i più poveri ai quali non sia mai avvenuto di ereditare: è’ il tesoro della gloria che si riceverà con tutti i santi e che sarà donata in Gesù, Signore risorto e glorioso. Anche noi, dunque, partecipiamo dello stesso destino di Cristo, come membra del suo corpo, la Chiesa, « la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose ». Domandiamo per noi e per tutti quanto san Paolo chiedeva per la sua comunità di Efeso: « uno spirito di sapienza per una più profonda conoscenza del Dio del Signore nostro Gesù Cristo »; domandiamo di avere gli « occhi del cuore» per comprendere la nostra speranza. Finché non raggiungiamo questa comprensione, ogni notizia sul mondo, sulle cose, sulla storia a poco ci giova. Colui che ha compreso l’opera di Gesù e vi prende parte assaporandola, gustandola e vivendola ha acquistato la vera scienza. Di conseguenza tutto il resto acquista una proporzione nuova, perché disponiamo di un criterio che ci fa valutare veramente e in maniera diversa le cose, per superarle e disincantarle. E’ il criterio dei santi e che consiste nel distacco che essi hanno vissuto dalle cose terrene, nutrendo solo il desiderio supremo del Signore.
Vangelo: Mt 28, 16-20.
Gesù risorto, incontrando i discepoli sul monte della Galilea, dove aveva dato appuntamento, dà loro il potere, come lui l’ha ricevuto dal Padre, di andare in tutto il mondo e fare suoi discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome delle Tre Persone della Santissima Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo e insegnare loro ad osservare tutto ciò che ha comandato loro. Promette che egli sarebbe stato sempre con loro per dare valore alla predicazione, ai sacramenti e al loro ministero.
La Chiesa, comunità di santi e di peccatori, in obbedienza a questo comando di Gesù (Mt28,10), convocata da lui, che l’ha beneficiato della rivelazione di sé nel suo corpo glorioso e investita di una dignità altissima, intraprende, fin dal tempo apostolico, la missione di testimoniare e realizzare, non a proprio nome ma a nome della Trinità tutta, l’opera salvatrice dell’umanità da lui iniziata.
La missione che affida loro esprime il potere di Signore risorto: è lui, quindi, che invia e rende efficaci gli atti di quelli che sono mandati. E’ lui che è presente e, per mezzo del suo Spirito, dà incremento alla sua opera perché la sua salvezza si estenda in tutto il mondo. La sua ascensione al cielo non lo allontana da loro, al contrario lo ravvicina in ogni tempo e spazio e, con lo Spirito Santo e il loro ministero, Gesù stabilisce il rapporto di salvezza con colui che crede. Le sue ultime parole ci sono motivo di conforto e di speranza:
« Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo ». Nessun momento della storia più è vuoto e privo della presenza del Signore. Se l’orazione personale, come colloquio ed esperienza personale di Cristo, fa sentire questa presenza, il vertice di questa presenza e di questa comunione si trova nell’Eucaristia, in cui la relazione con Gesù, asceso al cielo, raggiunge la sua espressione più perfetta: dove c’è Gesù Cristo, là c’è il Padre, c’è il cielo. Allora non è fuor di luogo dire che l’Eucaristia ci fa già pregustare in anticipo la Vita eterna.
Dai «Discorsi» di san Leone Magno, papa
(Disc. 2 sull’Ascensione 1, 4; PL 54, 397-399)
L’Ascensione del Signore accresce la nostra fede
Nella festa di Pasqua la risurrezione del Signore è stata per noi motivo di grande letizia. Così ora è causa di ineffabile gioia la sua ascensione al cielo. Oggi infatti ricordiamo e celebriamo il giorno in cui la nostra povera natura è stata elevata in Cristo fino al trono di Dio Padre, al di sopra di tutte le milizie celesti, sopra tutte le gerarchie angeliche, sopra l’altezza di tutte le potestà. L’intera esistenza cristiana si fonda e si eleva su un’arcana serie di azioni divine per le quali l’amore di Dio rivela maggiormente tutti i suoi prodigi. Pur trattandosi di misteri che trascendono la percezione umana e che ispirano un profondo timore riverenziale, non per questo vien meno la fede, vacilla la speranza e si raffredda la carità.
Credere senza esitare a ciò che sfugge alla vista materiale e fissare il desiderio là dove non si può arrivare con lo sguardo, è forza di cuori veramente grandi e luce di anime salde. Del resto, come potrebbe nascere nei nostri cuori la carità, o come potrebbe l’uomo essere giustificato per mezzo della fede, se il mondo della salvezza dovesse consistere solo in quelle cose che cadono sotto i nostri sensi?
Perciò quello che era visibile del nostro Redentore è passato nei riti sacramentali. Perché poi la fede risultasse più autentica e ferma, alla osservazione diretta è succeduto il magistero, la cui autorità avrebbero ormai seguito i cuori dei fedeli, rischiarati dalla luce superna.
Questa fede si accrebbe con l’ascensione del Signore e fu resa ancor più salda dal dono dello Spirito Santo. Non riuscirono ad eliminarla con il loro spavento né le catene, né il carcere, né l’esilio, né la fame o il fuoco, né i morsi delle fiere, né i supplizi più raffinati, escogitati dalla crudeltà dei persecutori. Per questa fede in ogni parte del mondo hanno combattuto fino a versare il sangue, non solo uomini, ma anche donne; non solo fanciulli, ma anche tenere fanciulle. Questa fede ha messo in fuga i demoni, ha vinto le malattie, ha risuscitato i morti.
Gli stessi santi apostoli, nonostante la conferma di numerosi miracoli e benché istruiti da tanti discorsi, si erano lasciati atterrire dalla tremenda passione del Signore e avevano accolto, non senza esitazione, la realtà della sua risurrezione. Però dopo seppero trarre tanto vantaggio dall’ascensione del Signore, da mutare in letizia tutto ciò che prima aveva causato loro timore. La loro anima era tutta rivolta a contemplare la divinità del Cristo, assiso alla destra del Padre. Non erano più impediti, per la presenza visibile del suo corpo, dal fissare lo sguardo della mente nel Verbo, che, pur discendendo dal Padre, non l’aveva mai lasciato, e, pur risalendo al Padre, non si era allontanato dai discepoli.
Proprio allora, o dilettissimi, il Figlio dell’uomo si diede a conoscere nella maniera più sublime e più santa come Figlio di Dio, quando rientrò nella gloria della maestà del Padre, e cominciò in modo ineffabile a farsi più presente per la sua divinità, lui che, nella sua umanità visibile, si era fatto più distante da noi.
Allora la fede, più illuminata, fu in condizione di percepire in misura sempre maggiore l’identità del Figlio con il Padre, e cominciò a non aver più bisogno di toccare nel Cristo quella sostanza corporea, secondo la quale è inferiore al Padre. Infatti, pur rimanendo nel Cristo glorificato la natura del corpo, la fede dei credenti era condotta in quella sfera in cui avrebbe potuto toccare l’Unigenito uguale al Padre, non più per contatto fisico, ma per la contemplazione dello spirito.
Ultimo aggiornamento (Sabato 06 Giugno 2020 17:35)
Chi ama Cristo è amato dal Padre celeste.
17 MAGGIO – VI DOMENICA DI PASQUA
Chi ama Cristo è amato dal Padre.
La nostra fede spesso è vissuta nel timore che Dio ci punisca. Essere cristiano significa credere che Dio è, come ci ha insegnato Gesù, un Padre premuroso verso di noi, si preoccupa e ci ama come un padre provvidente, che ama tutti, sia i buoni che i peccatori. Ha mandato il suo Figlio unigenito, Cristo Gesù, che è morto per noi, per liberarci dalla morte e ci assicura che, anche se non possiamo vederlo, toccarlo, egli non ci lascia soli, perché il suo Spirito ci accompagna sempre.
In tutto il tempo pasquale la letizia e la gioia non scaturiscono dal successo delle nostre imprese terrene, o perché i nostri giorni non conoscono motivi di ansia, ma esse ci vengono dalla costatazione e dalla certezza che siamo stati liberati dal peccato, che è la vera causa della tristezza, e dal fatto che il Signore risorto ci ha riportati ad una speranza che non conosce delusioni: la speranza della gloria eterna con lui.
Bisogna tornare spesso – e perciò è provvida la domenica – a ciò che Cristo ha fatto e insegnato se non vogliamo che la nostra gioia si inaridisca. Per non scoraggiarci in certi momenti, specie quelli difficili e tragici, la strada per uscire dall’avvilimento è quella di uscire da noi, sull’esempio di Gesù, che per il primo ha dato la sua vita per gli altri. Carità e letizia in questo tempo pasquale sono strettamente congiunte.
Nella colletta di questa domenica ci rivolgiamo al Padre dicendo: « O Dio, che ci ha redenti nel Cristo tuo Figlio messo a morte per i nostri peccati e risuscitato alla vita immortale, confermaci con il tuo Spirito di verità, perché nella gioia che viene da te, siamo pronti a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi ».
Prima Lettura: At 8,5-8.14-17.
Gli apostoli, dopo che l’apostolo Filippo ha predicato il Cristo nella Samaria e molti hanno prestato attenzione per i segni che egli compiva ( da molti indemoniati uscivano spiriti impuri, e paralitici e storpi erano stati risanati), inviano Pietro e Giovanni, i quali effondono, con l’imposizione delle mani, la pienezza dello Spirito Santo su coloro che erano stati solo battezzati nel nome di Gesù. Questo dono di Cristo rinnova e mette in fuga gli spiriti immondi. Il peccato lascia come una traccia della presenza del demonio ma i battezzati, per la loro fede e per i sacramenti, ne sono liberati. La novità di vita, prodotta dalla fede nel Cristo morto e risorto, deve manifestarsi in un comportamento in cui, confermati dallo Spirito di verità, siamo pronti a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi.
Seconda Lettura: 1 Pt 3,15-18.
Pietro nella sua lettera, ricca di insegnamenti preziosi, ci esorta ad adorare il Signore Gesù nei nostri cuori e coltivare l’amicizia con lui attraverso il colloquio della confidenza e dell’orazione. Ancora : dobbiamo rendere ragio- ne della speranza che è in noi e dire i motivi per cui crediamo, facendo questo con dolcezza e rispetto, anche quando si parla male di noi, cosicché « rimangano svergognati quelli che malignano sulla buona condotta che il credente ha in Cristo ». Non si deve essere irriguardosi, prepotenti e irritanti, ma dolci, leali, rispettosi. Non bisogna inoltre meravigliarsi se si patisce qualcosa per la fede, come Gesù, del resto, che è morto per noi. Ed ecco un principio che deve esserci di guida nella nostra condotta: « Se questa è la volontà di Dio, è meglio soffrire operando il bene che facendo il male».
Vangelo: 14,15-21.
Gesù, in questo brano del Vangelo, chiede ai discepoli di vivere, in continua prospettiva, l’attesa e il possesso, la promessa e la realizzazione. Ad essi, che si sentono abbandonati per aver detto che dove lui andava loro non potevano andare, Gesù li chiama “figlioli ”, e promette di non abbandonarli per sempre e che pregherà il Padre perché dia loro lo Spirito Paràclito, il Consolatore, che li accompagnerà lungo la loro esistenza e nella loro testimonianza. Giovanni scrivendo queste parole, dette da Gesù nell’ultima Cena, dopo l’evento della risurrezione, ci dice che, avendolo rivisto risorto, il Signore diventa il compimento del suo permanere tra loro e, per noi credenti, il vederlo nella visione della fede, diventa l’attuazione, nel nostro oggi, della promessa della sua presenza costante nella sua Chiesa : « … Non vi lascerò orfani: verrò di nuovo ».
Con questa presenza Gesù instaura un rapporto di comunione nell’intimo di ogni discepolo, perché Gesù dice: « Io sono nel Padre mio, e voi in me ed io in voi », dopo aver detto: « Io pregherò il Padre mio ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga sempre con voi » ( Gv 14,16). Così Gesù assicura il legame d’amore fra le Persone divine e il credente, legame esistenziale, concreto e pratico, per cui la presenza della Trinità nella nostra vita di credenti non è legata ad un luogo, al tempio, ad un qualsiasi luogo di culto, ma alla persona del credente.
Il tempo dello Spirito.
Il tempo, che intercorre tra le parole dette di Gesù e il compimento delle sue promesse, il tempo della Chiesa e il nostro, è animato dal suo Spirito, che realizza quelle promesse. Lo Spirito, che è Spirito di verità, ci fa comprendere la Parola di Gesù e ci dà la forza di testimoniarla, come avviene con la parola che predica Filippo presso i Samaritani, che credono e si convertono perché la testimonianza dell’apostolo rende credibile quella Parola. Ancora, in una comunità tribolata, come scrive san Pietro, lo Spirito anima la concretezza della vita cristiana: « E’ meglio soffrire operando il bene che facendo il male ». A sorreggere questa resistenza nel bene è la speranza che unisce, per mezzo della fede, a Cristo anche nei momenti delle tribolazioni. Questa testimonianza, tradotta in opere concrete, interroga anche i non credenti, a cui bisogna essere « sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi » ( Pt 3,15)
La presenza dello Spirito promesso è un dono che si riceve solo se il discepolo si decide ad accogliere l’invito di Gesù: « Se mi amate, osserverete i miei comandamenti … Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama » (Gv 14,15.21). Così l’amore non è un semplice sentimentalismo, ma è quello che si modella sul suo, poiché dice: « Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici » ( Gv 15,17).
Presso di noi, dunque, abita lo Spirito Santo, chiamato da Gesù il Paraclito, il Consolatore, che porta la verità, che è Gesù stesso e il suo Vangelo. Ma il luogo dove lo Spirito abita è il cuore dei discepoli del Signore, mediante la grazia. Gesù dice un’altra cosa nel brano che segue: « Non vi lascerò orfani ». E infatti lo Spirito Santo è il segno che Cristo è con noi e non ci abbandona a noi stessi, alla nostra solitudine. Poi ci sarà il suo ritorno glorioso, quando lo vedremo insieme col Padre. Sarà già il momento della morte, che allora non va aborrito ma, per questo motivo, atteso con gioia, si direbbe perfino con impazienza. Però adesso si devono mettere in pratica i comandamenti di Gesù: « Chi li osserva, questi è colui che mi ama ». Ecco un principio fondamentale chiarissimo: le parole da sole non sono indice di amore.
Ultimo aggiornamento (Sabato 06 Giugno 2020 17:34)
Gesù è Via, Verità e vita.
10 MAGGIO – V DOMENICA di PASQUA.
Gesù, Via, Verità e Vita.
Oggi siamo chiamati a riflettere sul ruolo che ha Cristo nella nostra vita.
« Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto prodigi »: è l’invito festoso che apre oggi la liturgia. Sappiamo quali sono questi prodigi che solo Dio ha fatto e per cui ci dobbiamo rallegrare: sono la liberazione dal peccato, essere stati rigenerati figli di adozione e chiamati all’eredità eterna. Cantiamo un canto nuovo perché siamo « primizie di umanità nuova », nata
per opera dello Spirito ed edificata « in sacerdozio regale, popolo santo, tempio della gloria di Dio ». Tutto questo non è sogno o parole vuote. La nostra fede ci fa percepire queste realtà. Ma questa fede deve poi maturare in opere di cui la più importante è l’amore, statuto e comandamento di una vita nuova, per cui possiamo essere per l’umanità portatori e testimoni efficaci e credibili della salvezza operata da Cristo. Nell’orazione la Chiesa prega dicendo: « O Padre, che ti riveli in Cristo maestro e redentore, fa’ che aderendo a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a te, siamo edificati anche noi in sacerdozio regale, popolo santo, tempio della tua gloria ».
Prima Lettura: At 6,1-7.
La Chiesa primitiva non è esente da screzi e dissapori e non dobbiamo forse idealizzarla troppo, perché, là dove ci sono degli uomini, ci possono essere anche imperfezioni e limiti. Per il disservizio delle mense e, quindi, nella realizzazione della carità, che si manifesta con l’« assistenza quotidiana », sorgono lamentele perché quelli di lingua greca vedono trascurate le loro vedove. Gli apostoli, per non trascurare il loro impegno di predicare la parola di Dio, provvedono chiedendo ai discepoli di scegliere « sette uomini di buona reputazione, ripieni di Spirito e di sapienza ». Queste tre caratteristiche sono esemplari: la reputazione buona, la pienezza dello Spirito Santo, la saggezza. Né si può prescindere da queste caratteristiche pur trattandosi del servizio delle mense. Anche le parole degli apostoli: « Noi ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola », attività che sono sentiti più propriamente ed essenzialmente come ministero apostolico, persuadono i discepoli ad accettare il servizio dei diaconi. Se questo fosse trascurato, essi sarebbero infedeli alla missione e neppure la carità ci potrebbe più essere, alla fine. Sarebbe cosa grave se questo senso del primato della preghiera e della predicazione venisse meno e ci si occupasse d’altro o di ciò che altri nella comunità cristiana, più convenientemen- te, potrebbero fare. Più che porsi queste varie attività in antitesi, servizio « alle mense » e « preghiera e predicazione », si tratta di articolarli in un giusto rapporto.
Seconda Lettura: 1 Pt 2,4-9.
San Pietro, rivolgendosi ad una comunità che vive l’assenza corporea di Gesù, dice :« Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo credete in lui » (1 Pt 1,8). Essi sono stati aggregati attraverso il Battesimo a Cristo e formano in lui, « pietra d’angolo », un tempio mentre, per coloro non credono, Gesù è « pietra di scandalo », perché essi « non obbediscono alla Parola », cioè non credono al Vangelo. La fede è credere nella Parola di Dio e la vita cristiana è sottomettersi ad essa.
La Parola, che ci raggiunge tramite le Scritture e soprattutto con Gesù, Parola fatta carne, suscita in noi la fede e da questo rapporto con la Parola e con Cristo sgorga il ministero della Chiesa, che continua l’opera del suo Signore. Gli Apostoli affrontano la crisi organizzativa della comunità stabilendo delle priorità: « Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio … Noi, invece, ci dedichiamo alla preghiera e al servizio della Parola »( At 6,2-4).
Oggi si parla, spesso anche a sproposito, di « laici » e di « laicato». Va bene, se si conserva viva la consapevolezza che un cristiano, prete o no, è un consacrato. Tutti i credenti formano « un sacerdozio santo ». Tutti, « quali pietre vive », sono costituiti « come edificio spirituale », così da potere offrire « sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo ». Questi sacrifici spirituali sono la nostra vita vissuta in grazia, le nostre opere animate dallo Spirito Santo. Questo è possibile se ci uniamo nella Eucaristia al sacrificio offerto da Cristo sulla croce.
Siamo un « edificio spirituale »: non varrebbe nulla una bella chiesa di pietre, se a formarla non fossimo noi con la nostra fede e la nostra carità. La chiesa di pietre è solo un segno e un aiuto: è in noi, nella comunità cristiana, che Dio dev’essere presente. Siamo noi chiamati « stirpe eletta, nazione santa, popolo di Dio », luogo della proclamazione del Vangelo, cioè delle opere della salvezza. E’ come dire che i cristiani rigettano tutto quanto è contrario alla santità, ogni forma di peccato.
In questo senso essi sono separati dal mondo, consacrati a Dio, destinati a collaborare alla redenzione del mondo e, in questo senso, a essere sacerdoti.
Vangelo: 14,1-12.
Gesù, a Tommaso che gli chiede di non conoscere la via dove va, si dichiara l’unica Via che conduce al Padre, come Verità della rivelazione, come unica Vita autentica. A Filippo, che gli chiede di mostrargli il volto del Padre, Gesù risponde: « Chi vede me, vede il Padre …. Io sono nel Padre e il Padre è in me ». Gesù, come unico rivelatore del Padre, immette nella intimità che c’è tra il Padre e il Figlio, perché dice:« Io sono nel Padre e il Padre è in me » e ai discepoli chiede: « Rimanete in me ed io in voi » (Gv 15,4). Quale sensazione non hanno provato gli apostoli nel sentire Gesù che dice loro: « Figlioli, ancora un poco sono con voi … Dove vado io, voi non potete venire », essi che avevano scommesso la loro vita nel seguirlo, pensando ad attese inerenti l’esistenza terrena?
All’annunzio dell’assenza del maestro sarà seguita in loro la sensazione dell’abbandono. Per questo Gesù continua dicendo: « Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me »(Gv 14,1). Gesù chiede loro di avere fede nel Padre e in lui e viceversa. Ma contem-poraneamente promette che essi saranno immessi nella intimità che vi è tra lui e il Padre e tale promessa deve far superare loro il turbamento causato dall’annunzio improvviso della sua assenza.
Questa intimità si realizza oggi con la mediazione del Cristo risorto, che, pur ascendendo alla destra del Padre, è presente nella Parola delle Scritture, attraverso l’Eucaristia con la sua presenza nel pane e nel vino, che per opera dello Spirito Santo diventano il suo Corpo e il suo Sangue. Così nell’atto del suo sacrificio di morte e risurrezione, memoriale eucaristico, che è principio di risurrezione e di vita nuova, noi riaffermiamo la nostra fiducia e la nostra fede nelle sue parole, che ci assicurano: «Vado a prepararvi un posto. Verrò di nuovo e vi prenderò con me ». Al di là della morte, che non è il tragico crollo della nostra speranza, Gesù ci assicura che ci farà vivere con lui e il Padre per l’eternità. E quando si sarebbe verificata questa promessa di intimità? Bisognava aspettare la fine dei tempi per la sua realizzazione o subito dopo la morte? Come vivere nell’oggi l’efficacia della promessa di Gesù? Attaverso i segni sacramentali e, soprattutto, con l'Eucaristia, la sua Parola noi viviamo nell'intimità con Cristo e per mezzo di Lui, nello Spirito Santo, con il Padre.
Voler essere suoi discepoli significa allora seguirlo in questo cammino, con la fede nel Padre e in lui, con la consapevolezza della nostra miseria per giungere alla piena comunione con Dio e i fratelli.
Gesù è il Buon Pastore, che dona la sua vita per il suo gregge.
3 MAGGIO – IV DOMENICA DI PASQUA.
Cristo Gesù che ci libera, ci conduce alla salvezza.
Gesù, che si presenta come il buon pastore è, ancora oggi, colui che accudisce, guida e conduce il popolo di Dio. Egli dice che al di fuori di lui non c’è salvezza e senza la sua croce non c’è risurrezione.
La Chiesa, che ha come origine e punto di arrivo Cristo, è chiamata a mettersi a servizio dell’umanità e a rinnovarla con il suo sacrificio.
A volte, presi dal dubbio, più o meno doloroso, più o meno violento ci domandiamo: “E se Dio non esistesse?”. Tale situazione di crisi può essere positiva per una fede più autentica. Infatti, a seconda di come pensiamo Dio, assumiamo, di conseguenza, atteggiamenti e realizziamo relazioni diverse con lui.
Ogni credente dovrebbe porsi la domanda: « Chi è Dio per me? »;« In chi ripongo la mia fiducia di salvezza? ». Il cristiano, come dice San Pietro, accoglie nella fede il messaggio che « Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che avete crocifisso ». Se fossimo stati anche noi lì, pur non implicati in solido e materialmente per la crocifissione del Signore, come gli undici, dovremmo convincerci che Gesù non è stato crocifisso solo per il peccato di quelli soli. La sua morte ha una portata universale: è morto per tutti, di ogni tempo e di ogni luogo.
L’incredulità può essere vinta con l’atteggiamento di abbandono in Dio, come ha fatto Gesù nel momento della prova.
Gesù, attraverso la parabola del Buon Pastore, vuol farci comprendere che egli conosce, chiama, conduce, cammina davanti a tutti coloro che, come sue pecore, vogliono seguirlo, ed essi, riconoscendo la sua voce, lo seguono. Con questa similitudine, che facilmente comprendevano gli uomini di allora, Gesù vuol dirci quale relazione si pone tra lui e i suoi discepoli: una relazione di appartenenza « siamo sue pecore », di affezione « ci conosce uno ad uno e ama », di guida « come il pastore che sta alla testa delle sue pecore » che lo seguono con fedeltà e amore. Il pastore conduce le pecore verso la libertà di « pascoli ubertosi ».
Con questa immagine del buon Pastore, che si prende cura delle sue pecore con amore e sollecitudine, egli vuol dirci che dobbiamo avere una diversa comprensione di Dio, di cui non dobbiamo avere timore, ma che da parte nostra, sue pecore, dobbiamo vivere con lui una relazione esclusiva con il Pastore: relazione nuova che ci fa accogliere Cristo come porta d’ingresso nella salvezza: egli si presenta come rivelazione del Padre, mediazione unica fra Lui e l’umanità, unica guida alla vera libertà, che è dono gratuito, salvezza ricevuta, accettata e corrisposta con amore.
Nella colletta dell’Eucaristia di oggi preghiamo dicendo:« O Dio, nostro Padre, che nel tuo Figlio ci hai riaperto la porta della salvezza, infondi in noi la sapienza dello Spirito, perché fra le insidie del mondo sappiamo riconoscere la voce di Cristo, buon pastore, che ci dona l’abbondanza della vita ».
La giustificazione che Dio ci dà, per la nostra adesione e il nostro abbandono fiducioso in lui, è sempre un dono gratuito. Dobbiamo, allora, seguire, se vogliamo essere suo “ umile gregge “, Cristo con sapienza e costanza, riconoscerne la voce e lasciarci condurre da lui, mentre siamo « fra le insidie del mondo ». Saremmo sprovveduti se chiudessimo gli occhi su queste insidie o se pensassimo di potercene preservare da soli. Come pastore, Cristo « ci guida alle sorgenti della vita»: Egli con la sua parola, con i suoi sacramenti, che ci risanano e ci legano a lui, è la nostra vita. L’immagine del gregge richiama quella dell’unità. Gesù « raduna gli uomini dispersi nell’unità di una sola famiglia ». L’unità dipende anche da ciascuno di noi, nella misura in cui supera e vince tutti i motivi di divisione, anche i più nascosti.
Prima Lettura: At 2,14.36-41.
« Gesù di Nazaret, il Crocifisso, - dice san Pietro - è stato costituito Signore e Messia » : questo annunzio suscita in quelli che hanno messo in croce il Cristo una trafittura del cuore e insieme il pentimento e la domanda di cosa devono fare. E l’apostolo li esorta a ricevere il Battesimo che, accolto, porta in essi, come frutti, la remissione dei peccati, l’effusione dello Spirito Santo e l’appartenenza alla comunità dei cristiani. Anche in noi, che abbiamo ricevuto il battesimo, è avvenuta la conversione, ci è stato dato il perdono, la grazia dello Spirito e siamo stati, per dono gratuito di Dio, inseriti nella Chiesa. Se la conversione non ha preceduto il nostro Battesimo, che abbiamo ricevuto da bambini, nella fede della Chiesa, essa deve avvenire giorno per giorno; e se anche non siamo stati partecipi materialmente alla crocifissione di Gesù, i nostri peccati l’ hanno gravato.
Seconda Lettura: 1Pt 2,20-25.
Gesù, scrive nella sua lettera ai cristiani san Pietro, è modello, esempio di vita e artefice della salvezza, che è frutto dell’obbedienza di Gesù al Padre e al progetto di salvezza che il Padre ha predisposti in lui. Così con il gesto del pastore che è disposto a dare la vita per le sue pecore, a difenderle davanti a chi vuole strappargliele e a guidarli verso i pascoli ubertosi della vita, Gesù esprime la sua solidarietà con gli uomini che vengono costituiti suoi fratelli. Egli raduna “i figli di Dio che erano dispersi”, come il pastore raduna le sue pecore, e custodisce le anime dei credenti nell’ « ovile del Padre ». Realizza così la figura biblica del Messia pastore. Ma la salvezza che egli porta passa attraverso il dolore del Servo sofferente, che come agnello viene portato alla croce (1Pt 2,24), che diventa strumento della nostra vita divina, perché Gesù dice di « essere venuto perché gli uomini abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza. Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore »(Gv 10,10-11).
Così per gli uomini, la sopportazione paziente della sofferenza ha un modello concreto: Cristo, che, soffrendo per noi, ha accettato, con fiducia, la passione e la croce per liberarci dai nostri peccati.
Poiché anche per i cristiani, varie situazioni sono oggetto di persecuzione, di ingiustizie, non può mancare in loro l‘atteggiamento fondamentale e decisivo, cioè l’affidamento che rimette la nostra causa « a colui che giudica con giustizia », a Dio che tiene conto di tutto. Questa certezza induce anche al timore. Non illudiamoci: Dio ci giudicherà con giustizia e, se anche riusciamo ad ingannare gli uomini, non possiamo certamente Dio.
Vangelo: Gv 10,1-10.
Gesù ci viene presentato dal brano del Vangelo di Giovanni come il pastore ideale che guida i credenti in lui. Gesù, dice ancora Giovanni, afferma solennemente che egli è la « porta delle pecore », attraverso la quale esse passano per entrare nell’ovile e per uscire al pascolo. Così con questa immagine Gesù si presenta come mediatore di salvezza: non ci sono altri spazi e altri passaggi di salvezza: « Se uno entra attraverso di me, sarà salvato ». Gesù con la sua opera copre tutta l’area della salvezza. Da lui solo, venuto a dare la vita e a darla in abbondanza con il dono di se stesso, può aversi la salvezza. Cristo è così l’antitesi del ladro, dello sfruttatore. Il Signore risorto è il pastore della Chiesa: ed è solo lui che essa deve ascoltare e di lui seguirne il cammino. Bisogna fare attenzione a non seguire altre voci e altri capi: sono estranei tutti quelli che non passano da lui. Questo è un richiamo a quanti nella Chiesa hanno il ministero, perché rappresentino fedelmente Cristo; ed è un invito a rendere grazie perché nell’episcopato, in comunione con il Papa, siamo sicuri di trovare il segno visibile di Gesù, pastore e porta.
Ultimo aggiornamento (Sabato 06 Giugno 2020 17:32)