GESÙ É IL DIVINO SEMINATORE CHE SPARGE LA SUA PAROLA NEL NOME DEL PADRE TRA GLI UOMINI.
16 LUGLIO-XV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO(A).
GESÙ É IL DIVINO SEMINATORE CHE SPARGE LA SUA PAROLA NEL NOME DEL PADRE TRA GLI UOMINI.
La testimonianza concreta del Vangelo da parte dei discepoli di Gesù.
L’essere cristiani, più che una etichetta, ci impegna a vivere secondo lo stile di vita del Vangelo, seguendo Cristo che ci indica la via per condurre una vita secondo la sua mentalità. Si deve allora respingere ciò che è contrario a questo nome e seguire ciò che gli è conforme. Questa esigenza della testimonianza, con la forza dello Spirito, non si rende concreta solo parlandone o insistendovi nella Liturgia, ma vivendo concretamente questo stile di vita. La consistenza delle opere non sempre è adeguata alla insistenza con cui ne parliamo.
L’uomo, creato da Dio a sua immagine e somiglianza, è stato dotato della libertà. Ma ci domandiamo: quale uso fa l’uomo della sua libertà nel suo rapporto con il Creatore? L’uomo può accogliere o rifiutare il dialogo e la parola con cui Dio lo interpella, anche se ciò è avvenuto attraverso il suo stesso Figlio, venuto tra noi. A seconda della disponibilità o indisponibilità dell’uomo, la Parola di Dio può portare il suo frutto nel cuore di chi l’accoglie: il seme è gettato, ma potrebbe andare disperso.
Nel Vangelo di oggi, la parabola del Buon Seminatore, se nella prima parte è messo in risalto il lavoro del seminatore, che sparge il seme, nella seconda parte viene sottolineato quale frutto matura nelle varie situazioni del terreno in cui il seme è sparso.
Nella Orazione di questa domenica preghiamo Dio dicendo: « O Padre, che continui a seminare la tua parola nei solchi dell’umanità, accresci in noi, con la potenza del tuo Spirito, la disponibilità ad accogliere il Vangelo, per portare frutti di giustizia e di pace. ».
Prima Lettura: Is 55,10-11
Isaia descrive la Parola di Dio come la pioggia e la neve, che scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver irrigato la terra, fecondata e fatta germogliare, così da dare il seme a chi semina e il pane a chi lo mangia. La parola del Signore esce dalla sua bocca e non ritorna al Signore senza frutto e senza aver operato ciò che egli desidera e per cui l’ha mandata. Questa parola ha in sé la potenza di operare ciò che Dio vuole, al di là di tutto ciò che l’uomo vi oppone o la ostacola. Se da una parte è necessaria l’accoglienza di essa e il viverla, realizzando ciò che Dio desidera, dall’altra bisogna nutrire la speranza che Dio compie ciò per cui l’ha mandata al di là di quelli che possono essere gli ostacoli che essa incontra nel cuore degli uomini.
Seconda Lettura: Rm 8,18-23
San Paolo, partendo dalla convinzione che le sofferenze della vita presente non sono paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata, scrive ai Romani dicendo che tutta la creazione attende ardentemente ed è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio, perché Dio, per suo volere, l’ha sottoposta nella caducità, nella speranza che tutta sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà dei figli di Dio, alla maniera del Cristo risorto. E come questa creazione è paragonata ad una donna che attende, nelle doglie del parto, di dare al mondo una nuova vita, così anche coloro che possiedono le primizie dello Spirito di Cristo gemono interiormente aspettando l’adozione a figli e la redenzione del proprio corpo. Pur essendo già redenti si è ancora sottoposti alla caducità che ci procura tribolazioni, sofferenze di varia natura, che servono a purificarci e avere gradatamente la vita nuova dei figli di Dio. Lo Spirito che già agisce in noi ci libera, qui nel tempo della nostra vita, dal peccato, ma quando rinasceremo per il cielo, anche questo nostro corpo, unitamente al nostro spirito, godrà della gloria dei figli di Dio, divenendo conformi al Cristo risorto. L’accoglienza delle sofferenze, delle tribolazioni e delle rinunzie, nelle scelte della vita quotidiana per la realizzazione del vero bene, se ci fanno partecipare alla sofferenze di Cristo, in quanto sue membra, ci danno il germe della risurrezione
Vangelo: Mt 11,1-23
Gesù, seduto su una barca in riva al mare, racconta alla folla la parabola del seminatore, per farci comprendere come dobbiamo disporre il nostro cuore affinché la parola annunziata da Lui, (Parola del Padre venuto dal cielo), come l’acqua che discende dal cielo), venendo in noi, possa portare frutto e realizzare nel cuore dell’uomo la salvezza. Come il seme caduto nei diversi posti, lungo la strada dove viene beccato dagli uccelli, nel terreno sassoso dove non ha la possibilità di germogliare e avere profonde radici, in un terreno pieno di rovi che lo soffocano o nel terreno buono dove da frutto in varia misura del cento, del sessanta o del trenta, così, nel nostro cuore, a seconda delle condizioni in cui ci troviamo, questa parola può essere derubata; se ascoltata superficialmente e, pur accolta con gioia, non ponendo radici consistenti, le tribolazioni o le persecuzioni la fanno morire; può essere soffocata da preoccupazioni del mondo o dalla seduzione della ricchezza e non dare quindi frutto; può infine portare frutto più o memo abbondante, se la Parola trova buone condizioni interiori nel nostro cuore.
Tutti gli ascoltatori, a cui Gesù si rivolge annunziando la lieta novella del Regno, comprendono il significato della parabola, se agli apostoli Gesù ne spiega il significato?
Gesù, rispondendo ai suoi discepoli che gli chiedono perché parli alle folle in parabole, dice che mentre a loro è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, alle folle invece no, perché « guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono…», attuandosi cosi la profezia di Isaia che dice: « Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca ».
Così dice ancora ai discepoli che sono beati i loro occhi perché vedono e i loro orecchi perché ascoltano ciò che i profeti e giusti hanno desiderato vedere ciò che essi guardano, ma non lo videro, e ascoltare ciò che essi ascoltano, ma non lo udirono.
La Parola di Dio così come il seme può subire diverse vicissitudini. Essa realizza ciò per cui viene detta, solamente se il cuore di chi l’ascolta è disposto ad accoglierla generosamente. Se la sua accoglienza è incerta, disimpegnata, dubbiosa, incostante, non piena e libera, non può produrre gli effetti che vuole realizzare. Ascoltare, comprendere e produrre: è questo l’impegno che ogni uomo deve porre davanti all’annunzio della Parola di Dio.
Trascurare questo annunzio, averne paura significa soggiacere alla condanna di chi vuole ostinarsi nel male. Quello che Gesù disse allora agli Ebrei vale anche per la Chiesa di ieri e di oggi, per la comunità cristiana e per ognuno.
Gesù, che è il seminatore, nel narrare la parabola, ci permette di contemplarne il significato nella sua persona e nella predicazione che egli fa. Anche a noi Gesù ripete: « Chi ha orecchi, ascolti ». Cristo, nel nome del Padre, per sua libera iniziativa, semina la Parola del Regno che è dono elargito all’uomo, Parola rivolta a tutti senza distinzione di sorta.
Sembra, però, che l’opera della semina sia quasi fallimentare, se si pensa che solo nella quarta tipologia di terreno il seme porta frutto, mentre nelle altre tipologie il seme, pur spuntando, viene impedito nel suo sviluppo dalle situazioni del terreno e non per difetto del seme, che è sempre buono e capace di produrre.
Nei cuori degli uomini i quattro tipi di terreno non si trovano cosi nettamente connotati. Spesso il cuore di ognuno è un misto dei quattro tipi, o contemporaneamente o in tempi diversi. Fare in modo che il proprio cuore diventi terreno produttivo senza compromessi è il compito affidato a ciascuno, durante il cammino di purificazione lungo la propria esistenza. Siamo chiamati nel percorso della nostra vita spirituale ad evitare che il nostro cuore si indurisca, evitare che pur “sentendo non ascoltiamo, pur vedendo non vediamo e non comprendiamo”. E’ la lotta contro il Maligno che ruba la Parola; contro l’incostanza che non resiste alle tribolazioni; contro “le preoccupazioni del mondo e la seduzione della ricchezza”. Saremo allora produttivi se faremo, con la grazia di Dio e la forza dello Spirito, germogliare il seme che ci è stato donato e lo faremo fruttare nella vita di fede e nella vita di orazione, anche dopo una inesausta lotta contro tutto ciò che vi si oppone.
ALLA SCUOLA DEL MAESTRO
9 LUGLIO – XIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Nella preghiera della colletta di oggi chiediamo al Signore dicendo: «O Dio, che ti riveli ai piccoli e doni ai poveri l’eredità del tuo regno, rendici miti e umili di cuore, a imitazione del Cristo tuo Figlio, perché, portando con lui il giogo soave della croce, annunziamo al mondo la gioia che viene da te ». La gioia che viene dal Signore, che si rinnova con la grazia che Dio ci dona nella domenica, pasqua settimanale della Chiesa, ci fa essere capaci di imitare Gesù, essere poveri, liberi esultanti anche nel portare la croce e di annunziarla a tutti.
La condizione di questa gioia è che dobbiamo essere « liberi dall’oppressione della colpa », dal giogo del peccato che, facendoci chiudere nel nostro egoismo, ci immiserisce sempre più. « Il giogo soave della croce », che ci sgombra il cuore, ci fa imitare Cristo nella sua « umiliazione », e quindi ci rende disponibili, proprio perché non saremo più attaccati a noi stessi, a portare « in ogni ambiente di vita la parola d’amore e di pace », il Vangelo che è annunzio ed esperienza di gioia pasquale.
Le letture della liturgia di oggi ci parlano di un Messia umile. Secondo le parole del profeta Zaccaria egli si manifesta al mondo cavalcando un asino. E’ Gesù il Messia, mite ed umile di cuore annunziato dal profeta, che chiama a sé gli affaticati e porta la salvezza del Padre.
Prima Lettura: Zc 9,9-10.
Il profeta Zaccaria invita la figlia di Sion, la figlia di Gerusalemme, ad esultare e giubilare, annunziando che il suo re, giusto e vittorioso, umile, cavalcante un asino, viene a lei. Egli farà sparire la guerra, l’arco di guerra sarà spezzato e verrà annunziata la pace alle nazioni. Il suo dominio sarà esteso fino ai confini della terra.
Non nella prepotenza o con le armi ma nella giustizia e nella pace si realizzerà la vittoria di Colui che Dio manda in Gerusalemme, poiché sarà un re mite ed umile, senza segni che appartengono alla mentalità terrena. La sua non sarà una regalità mondana, come l’aspettava Israele, saranno la mitezza, l’umiltà, la giustizia e la pace a trasformare gli uomini..
Sarà Gesù di Nazaret, che entra in Gerusalemme con questi segni, cavalcando un puledro, a realizzare questa profezia di Zaccaria e a portare la pace, la giustizia e la regalità di Dio, che non sono di questo mondo come dice Gesù a Pilato.
Seconda Lettura: Rm 8,9.11-13.
San Paolo scrive ai Romani, che essendo diventati figli di Dio attraverso il battesimo, animati dal suo Spirito appartengono a Cristo e non sono più sotto il dominio della carne, e li esorta a vivere secondo lo Spirito di Dio che abita in loro.« E se lo Spirito di Dio » continua « che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita an- che ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi ». Dunque, conclude, che non sono più debitori verso la carne per vivere secondo i desideri carnali che conducono alla morte, ma mediante lo Spirito devono far morire le opere della carne per avere la vita divina in loro.
L’appartenenza a Cristo dell’uomo, rinato dallo Spirito di Dio, gli assicura la risurrezione del suo corpo mortale a condizione che egli faccia vivere in lui le opere dello Spirito di Cristo. Liberato dal potere della carne, con la grazia che Dio gli offre, l’uomo può, dunque, vivere la vita divina e attendere, nella speranza, la risurrezione finale che lo introdurrà nella realtà eterna di Dio. Tutta la condotta del cristiano deve manifestare questa novità di vita secondo lo Spirito di Dio, attraverso i frutti dello Spirito che sono amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé, come scrive ancora san Paolo ai Galati. Far morire le opere della carne non vuol dire far morire la vita nella sua corporeità fisica, ma quella vita di male che conduce alla morte spirituale.
L’uomo di carne è inteso, secondo il pensiero di san Paolo, non come corpo o nella sessualità, ma in tutta la sua realtà di fragilità, di debolezza, di condizione di schiavitù sotto il potere del peccato e in quanto si oppone a Dio, alla sua azione e alla sua signoria.
Il dominio della carne si manifesta quando la superbia, l’orgoglio, peccati difficili da riconoscere e più pericolosi, possono rivestirsi esteriormente di devozione e inducono l’uomo a ridurre Dio ad oggetto del proprio pensiero, manipolandolo, possedendolo e dominandolo, pervertendo così ledimensio-ni più nobili dell’animo umano.
L’uomo spirituale invece che è abitato dallo Spirito di Cristo, è colui che vive nel regno della grazia, che vive unito a Cristo, gli appartiene e Il Signore gli assicura la risurrezione con lui. La condotta del cristiano deve rivelare la presenza in lui dell’azione dello Spirito di Cristo e manifestare l’assoluta novità del suo modo di vivere.
Vangelo: Mt 11,25-30.
Gesù, nel brano del Vangelo di oggi, ringrazia e loda il Padre celeste perché, nella sua benevolenza, ha deciso di nascondere ai sapienti e ai dotti della terra i misteri del regno dei cieli, mentre li ha rivelati ai piccoli. Avendo il Padre dato a lui tutto, dice Gesù, nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui a cui questi lo rivela.
Gesù ancora esorta tutti coloro che sono stanchi ed oppressi ad andare a lui per trovare ristoro; a prendere su di sé il suo « giogo » che è dolce e il suo « pe- so » leggero e ad imparare da lui che è mite ed umile di cuore, se si vuole trovare ristoro nella propria vita.
Nella relazione con Dio l’uomo spirituale riconosce che tutto gli viene per grazia e, nel percepire la sproporzione della gratuità, diventa cosciente del dono di sé che Dio, immeritatamente, gli offre.
In un contesto di rifiuto della rivelazione che Gesù fa e delle sue opere, la fede dei piccoli, degli umili, più che essere conquista deve essere libera risposta dell’uomo alla Parola che lo raggiunge, lo interpella e lo coinvolge e non orgogliosa presunzione di sapere su Dio, che si rivela ai semplici, ai piccoli e agli umili nella « sua benevolenza »(Mt11,26).
Chi è superbamente gonfio di sé, nei propri pregiudizi, nella propria bravura e nella propria illusoria giustizia, non riesce a comprendere il mistero di Gesù e della sua unità col Padre. Non riesce a conoscerlo e ad amarlo. La rivelazione di Gesù è concessa come grazia « ai piccoli », agli umili, aperti alla Parola di Dio. Questi, affidandosi a Cristo nei loro affanni, nella loro situazione di dolore, di disagio, di rifiuto da parte dei potenti, di prova, trovano serenità e pace.Nella ricerca teologica o nell’accogliere la rivelazione di Dio da parte di qualunque credente, è necessario un atteggiamento di umiltà, la consapevolezza della propria piccolezza in ragione della sproporzione che vi è fra lui e Dio. Il Vangelo non è un giogo che schiaccia, ma un sollievo per chi lo viva con sincerità e coerenza.
ALLA SCUOLA DEL MAESTRO
9 LUGLIO – XIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Nella preghiera della colletta di oggi chiediamo al Signore dicendo: «O Dio, che ti riveli ai piccoli e doni ai poveri l’eredità del tuo regno, rendici miti e umili di cuore, a imitazione del Cristo tuo Figlio, perché, portando con lui il giogo soave della croce, annunziamo al mondo la gioia che viene da te ». La gioia che viene dal Signore, che si rinnova con la grazia che Dio ci dona nella domenica, pasqua settimanale della Chiesa, ci fa essere capaci di imitare Gesù, essere poveri, liberi esultanti anche nel portare la croce e di annunziarla a tutti.
La condizione di questa gioia è che dobbiamo essere « liberi dall’oppressione della colpa », dal giogo del peccato che, facendoci chiudere nel nostro egoismo, ci immiserisce sempre più. « Il giogo soave della croce », che ci sgombra il cuore, ci fa imitare Cristo nella sua « umiliazione », e quindi ci rende disponibili, proprio perché non saremo più attaccati a noi stessi, a portare « in ogni ambiente di vita la parola d’amore e di pace », il Vangelo che è annunzio ed esperienza di gioia pasquale.
Le letture della liturgia di oggi ci parlano di un Messia umile. Secondo le parole del profeta Zaccaria egli si manifesta al mondo cavalcando un asino. E’ Gesù il Messia, mite ed umile di cuore annunziato dal profeta, che chiama a sé gli affaticati e porta la salvezza del Padre.
Prima Lettura: Zc 9,9-10.
Il profeta Zaccaria invita la figlia di Sion, la figlia di Gerusalemme, ad esultare e giubilare, annunziando che il suo re, giusto e vittorioso, umile, cavalcante un asino, viene a lei. Egli farà sparire la guerra, l’arco di guerra sarà spezzato e verrà annunziata la pace alle nazioni. Il suo dominio sarà esteso fino ai confini della terra.
Non nella prepotenza o con le armi ma nella giustizia e nella pace si realizzerà la vittoria di Colui che Dio manda in Gerusalemme, poiché sarà un re mite ed umile, senza segni che appartengono alla mentalità terrena. La sua non sarà una regalità mondana, come l’aspettava Israele, saranno la mitezza, l’umiltà, la giustizia e la pace a trasformare gli uomini..
Sarà Gesù di Nazaret, che entra in Gerusalemme con questi segni, cavalcando un puledro, a realizzare questa profezia di Zaccaria e a portare la pace, la giustizia e la regalità di Dio, che non sono di questo mondo come dice Gesù a Pilato.
Seconda Lettura: Rm 8,9.11-13.
San Paolo scrive ai Romani, che essendo diventati figli di Dio attraverso il battesimo, animati dal suo Spirito appartengono a Cristo e non sono più sotto il dominio della carne, e li esorta a vivere secondo lo Spirito di Dio che abita in loro.« E se lo Spirito di Dio » continua « che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita an- che ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi ». Dunque, conclude, che non sono più debitori verso la carne per vivere secondo i desideri carnali che conducono alla morte, ma mediante lo Spirito devono far morire le opere della carne per avere la vita divina in loro.
L’appartenenza a Cristo dell’uomo, rinato dallo Spirito di Dio, gli assicura la risurrezione del suo corpo mortale a condizione che egli faccia vivere in lui le opere dello Spirito di Cristo. Liberato dal potere della carne, con la grazia che Dio gli offre, l’uomo può, dunque, vivere la vita divina e attendere, nella speranza, la risurrezione finale che lo introdurrà nella realtà eterna di Dio. Tutta la condotta del cristiano deve manifestare questa novità di vita secondo lo Spirito di Dio, attraverso i frutti dello Spirito che sono amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé, come scrive ancora san Paolo ai Galati. Far morire le opere della carne non vuol dire far morire la vita nella sua corporeità fisica, ma quella vita di male che conduce alla morte spirituale.
L’uomo di carne è inteso, secondo il pensiero di san Paolo, non come corpo o nella sessualità, ma in tutta la sua realtà di fragilità, di debolezza, di condizione di schiavitù sotto il potere del peccato e in quanto si oppone a Dio, alla sua azione e alla sua signoria.
Il dominio della carne si manifesta quando la superbia, l’orgoglio, peccati difficili da riconoscere e più pericolosi, possono rivestirsi esteriormente di devozione e inducono l’uomo a ridurre Dio ad oggetto del proprio pensiero, manipolandolo, possedendolo e dominandolo, pervertendo così ledimensio-ni più nobili dell’animo umano.
L’uomo spirituale invece che è abitato dallo Spirito di Cristo, è colui che vive nel regno della grazia, che vive unito a Cristo, gli appartiene e Il Signore gli assicura la risurrezione con lui. La condotta del cristiano deve rivelare la presenza in lui dell’azione dello Spirito di Cristo e manifestare l’assoluta novità del suo modo di vivere.
Vangelo: Mt 11,25-30.
Gesù, nel brano del Vangelo di oggi, ringrazia e loda il Padre celeste perché, nella sua benevolenza, ha deciso di nascondere ai sapienti e ai dotti della terra i misteri del regno dei cieli, mentre li ha rivelati ai piccoli. Avendo il Padre dato a lui tutto, dice Gesù, nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui a cui questi lo rivela.
Gesù ancora esorta tutti coloro che sono stanchi ed oppressi ad andare a lui per trovare ristoro; a prendere su di sé il suo « giogo » che è dolce e il suo « pe- so » leggero e ad imparare da lui che è mite ed umile di cuore, se si vuole trovare ristoro nella propria vita.
Nella relazione con Dio l’uomo spirituale riconosce che tutto gli viene per grazia e, nel percepire la sproporzione della gratuità, diventa cosciente del dono di sé che Dio, immeritatamente, gli offre.
In un contesto di rifiuto della rivelazione che Gesù fa e delle sue opere, la fede dei piccoli, degli umili, più che essere conquista deve essere libera risposta dell’uomo alla Parola che lo raggiunge, lo interpella e lo coinvolge e non orgogliosa presunzione di sapere su Dio, che si rivela ai semplici, ai piccoli e agli umili nella « sua benevolenza »(Mt11,26).
Chi è superbamente gonfio di sé, nei propri pregiudizi, nella propria bravura e nella propria illusoria giustizia, non riesce a comprendere il mistero di Gesù e della sua unità col Padre. Non riesce a conoscerlo e ad amarlo. La rivelazione di Gesù è concessa come grazia « ai piccoli », agli umili, aperti alla Parola di Dio. Questi, affidandosi a Cristo nei loro affanni, nella loro situazione di dolore, di disagio, di rifiuto da parte dei potenti, di prova, trovano serenità e pace.Nella ricerca teologica o nell’accogliere la rivelazione di Dio da parte di qualunque credente, è necessario un atteggiamento di umiltà, la consapevolezza della propria piccolezza in ragione della sproporzione che vi è fra lui e Dio. Il Vangelo non è un giogo che schiaccia, ma un sollievo per chi lo viva con sincerità e coerenza.
ALLA SCUOLA DEL MAESTRO
9 LUGLIO – XIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Nella preghiera della colletta di oggi chiediamo al Signore dicendo: «O Dio, che ti riveli ai piccoli e doni ai poveri l’eredità del tuo regno, rendici miti e umili di cuore, a imitazione del Cristo tuo Figlio, perché, portando con lui il giogo soave della croce, annunziamo al mondo la gioia che viene da te ». La gioia che viene dal Signore, che si rinnova con la grazia che Dio ci dona nella domenica, pasqua settimanale della Chiesa, ci fa essere capaci di imitare Gesù, essere poveri, liberi esultanti anche nel portare la croce e di annunziarla a tutti.
La condizione di questa gioia è che dobbiamo essere « liberi dall’oppressione della colpa », dal giogo del peccato che, facendoci chiudere nel nostro egoismo, ci immiserisce sempre più. « Il giogo soave della croce », che ci sgombra il cuore, ci fa imitare Cristo nella sua « umiliazione », e quindi ci rende disponibili, proprio perché non saremo più attaccati a noi stessi, a portare « in ogni ambiente di vita la parola d’amore e di pace », il Vangelo che è annunzio ed esperienza di gioia pasquale.
Le letture della liturgia di oggi ci parlano di un Messia umile. Secondo le parole del profeta Zaccaria egli si manifesta al mondo cavalcando un asino. E’ Gesù il Messia, mite ed umile di cuore annunziato dal profeta, che chiama a sé gli affaticati e porta la salvezza del Padre.
Prima Lettura: Zc 9,9-10.
Il profeta Zaccaria invita la figlia di Sion, la figlia di Gerusalemme, ad esultare e giubilare, annunziando che il suo re, giusto e vittorioso, umile, cavalcante un asino, viene a lei. Egli farà sparire la guerra, l’arco di guerra sarà spezzato e verrà annunziata la pace alle nazioni. Il suo dominio sarà esteso fino ai confini della terra.
Non nella prepotenza o con le armi ma nella giustizia e nella pace si realizzerà la vittoria di Colui che Dio manda in Gerusalemme, poiché sarà un re mite ed umile, senza segni che appartengono alla mentalità terrena. La sua non sarà una regalità mondana, come l’aspettava Israele, saranno la mitezza, l’umiltà, la giustizia e la pace a trasformare gli uomini..
Sarà Gesù di Nazaret, che entra in Gerusalemme con questi segni, cavalcando un puledro, a realizzare questa profezia di Zaccaria e a portare la pace, la giustizia e la regalità di Dio, che non sono di questo mondo come dice Gesù a Pilato.
Seconda Lettura: Rm 8,9.11-13.
San Paolo scrive ai Romani, che essendo diventati figli di Dio attraverso il battesimo, animati dal suo Spirito appartengono a Cristo e non sono più sotto il dominio della carne, e li esorta a vivere secondo lo Spirito di Dio che abita in loro.« E se lo Spirito di Dio » continua « che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita an- che ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi ». Dunque, conclude, che non sono più debitori verso la carne per vivere secondo i desideri carnali che conducono alla morte, ma mediante lo Spirito devono far morire le opere della carne per avere la vita divina in loro.
L’appartenenza a Cristo dell’uomo, rinato dallo Spirito di Dio, gli assicura la risurrezione del suo corpo mortale a condizione che egli faccia vivere in lui le opere dello Spirito di Cristo. Liberato dal potere della carne, con la grazia che Dio gli offre, l’uomo può, dunque, vivere la vita divina e attendere, nella speranza, la risurrezione finale che lo introdurrà nella realtà eterna di Dio. Tutta la condotta del cristiano deve manifestare questa novità di vita secondo lo Spirito di Dio, attraverso i frutti dello Spirito che sono amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé, come scrive ancora san Paolo ai Galati. Far morire le opere della carne non vuol dire far morire la vita nella sua corporeità fisica, ma quella vita di male che conduce alla morte spirituale.
L’uomo di carne è inteso, secondo il pensiero di san Paolo, non come corpo o nella sessualità, ma in tutta la sua realtà di fragilità, di debolezza, di condizione di schiavitù sotto il potere del peccato e in quanto si oppone a Dio, alla sua azione e alla sua signoria.
Il dominio della carne si manifesta quando la superbia, l’orgoglio, peccati difficili da riconoscere e più pericolosi, possono rivestirsi esteriormente di devozione e inducono l’uomo a ridurre Dio ad oggetto del proprio pensiero, manipolandolo, possedendolo e dominandolo, pervertendo così ledimensio-ni più nobili dell’animo umano.
L’uomo spirituale invece che è abitato dallo Spirito di Cristo, è colui che vive nel regno della grazia, che vive unito a Cristo, gli appartiene e Il Signore gli assicura la risurrezione con lui. La condotta del cristiano deve rivelare la presenza in lui dell’azione dello Spirito di Cristo e manifestare l’assoluta novità del suo modo di vivere.
Vangelo: Mt 11,25-30.
Gesù, nel brano del Vangelo di oggi, ringrazia e loda il Padre celeste perché, nella sua benevolenza, ha deciso di nascondere ai sapienti e ai dotti della terra i misteri del regno dei cieli, mentre li ha rivelati ai piccoli. Avendo il Padre dato a lui tutto, dice Gesù, nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui a cui questi lo rivela.
Gesù ancora esorta tutti coloro che sono stanchi ed oppressi ad andare a lui per trovare ristoro; a prendere su di sé il suo « giogo » che è dolce e il suo « pe- so » leggero e ad imparare da lui che è mite ed umile di cuore, se si vuole trovare ristoro nella propria vita.
Nella relazione con Dio l’uomo spirituale riconosce che tutto gli viene per grazia e, nel percepire la sproporzione della gratuità, diventa cosciente del dono di sé che Dio, immeritatamente, gli offre.
In un contesto di rifiuto della rivelazione che Gesù fa e delle sue opere, la fede dei piccoli, degli umili, più che essere conquista deve essere libera risposta dell’uomo alla Parola che lo raggiunge, lo interpella e lo coinvolge e non orgogliosa presunzione di sapere su Dio, che si rivela ai semplici, ai piccoli e agli umili nella « sua benevolenza »(Mt11,26).
Chi è superbamente gonfio di sé, nei propri pregiudizi, nella propria bravura e nella propria illusoria giustizia, non riesce a comprendere il mistero di Gesù e della sua unità col Padre. Non riesce a conoscerlo e ad amarlo. La rivelazione di Gesù è concessa come grazia « ai piccoli », agli umili, aperti alla Parola di Dio. Questi, affidandosi a Cristo nei loro affanni, nella loro situazione di dolore, di disagio, di rifiuto da parte dei potenti, di prova, trovano serenità e pace.Nella ricerca teologica o nell’accogliere la rivelazione di Dio da parte di qualunque credente, è necessario un atteggiamento di umiltà, la consapevolezza della propria piccolezza in ragione della sproporzione che vi è fra lui e Dio. Il Vangelo non è un giogo che schiaccia, ma un sollievo per chi lo viva con sincerità e coerenza.
ALLA SCUOLA DEL MAESTRO
9 LUGLIO – XIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Nella preghiera della colletta di oggi chiediamo al Signore dicendo: «O Dio, che ti riveli ai piccoli e doni ai poveri l’eredità del tuo regno, rendici miti e umili di cuore, a imitazione del Cristo tuo Figlio, perché, portando con lui il giogo soave della croce, annunziamo al mondo la gioia che viene da te ». La gioia che viene dal Signore, che si rinnova con la grazia che Dio ci dona nella domenica, pasqua settimanale della Chiesa, ci fa essere capaci di imitare Gesù, essere poveri, liberi esultanti anche nel portare la croce e di annunziarla a tutti.
La condizione di questa gioia è che dobbiamo essere « liberi dall’oppressione della colpa », dal giogo del peccato che, facendoci chiudere nel nostro egoismo, ci immiserisce sempre più. « Il giogo soave della croce », che ci sgombra il cuore, ci fa imitare Cristo nella sua « umiliazione », e quindi ci rende disponibili, proprio perché non saremo più attaccati a noi stessi, a portare « in ogni ambiente di vita la parola d’amore e di pace », il Vangelo che è annunzio ed esperienza di gioia pasquale.
Le letture della liturgia di oggi ci parlano di un Messia umile. Secondo le parole del profeta Zaccaria egli si manifesta al mondo cavalcando un asino. E’ Gesù il Messia, mite ed umile di cuore annunziato dal profeta, che chiama a sé gli affaticati e porta la salvezza del Padre.
Prima Lettura: Zc 9,9-10.
Il profeta Zaccaria invita la figlia di Sion, la figlia di Gerusalemme, ad esultare e giubilare, annunziando che il suo re, giusto e vittorioso, umile, cavalcante un asino, viene a lei. Egli farà sparire la guerra, l’arco di guerra sarà spezzato e verrà annunziata la pace alle nazioni. Il suo dominio sarà esteso fino ai confini della terra.
Non nella prepotenza o con le armi ma nella giustizia e nella pace si realizzerà la vittoria di Colui che Dio manda in Gerusalemme, poiché sarà un re mite ed umile, senza segni che appartengono alla mentalità terrena. La sua non sarà una regalità mondana, come l’aspettava Israele, saranno la mitezza, l’umiltà, la giustizia e la pace a trasformare gli uomini..
Sarà Gesù di Nazaret, che entra in Gerusalemme con questi segni, cavalcando un puledro, a realizzare questa profezia di Zaccaria e a portare la pace, la giustizia e la regalità di Dio, che non sono di questo mondo come dice Gesù a Pilato.
Seconda Lettura: Rm 8,9.11-13.
San Paolo scrive ai Romani, che essendo diventati figli di Dio attraverso il battesimo, animati dal suo Spirito appartengono a Cristo e non sono più sotto il dominio della carne, e li esorta a vivere secondo lo Spirito di Dio che abita in loro.« E se lo Spirito di Dio » continua « che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita an- che ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi ». Dunque, conclude, che non sono più debitori verso la carne per vivere secondo i desideri carnali che conducono alla morte, ma mediante lo Spirito devono far morire le opere della carne per avere la vita divina in loro.
L’appartenenza a Cristo dell’uomo, rinato dallo Spirito di Dio, gli assicura la risurrezione del suo corpo mortale a condizione che egli faccia vivere in lui le opere dello Spirito di Cristo. Liberato dal potere della carne, con la grazia che Dio gli offre, l’uomo può, dunque, vivere la vita divina e attendere, nella speranza, la risurrezione finale che lo introdurrà nella realtà eterna di Dio. Tutta la condotta del cristiano deve manifestare questa novità di vita secondo lo Spirito di Dio, attraverso i frutti dello Spirito che sono amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé, come scrive ancora san Paolo ai Galati. Far morire le opere della carne non vuol dire far morire la vita nella sua corporeità fisica, ma quella vita di male che conduce alla morte spirituale.
L’uomo di carne è inteso, secondo il pensiero di san Paolo, non come corpo o nella sessualità, ma in tutta la sua realtà di fragilità, di debolezza, di condizione di schiavitù sotto il potere del peccato e in quanto si oppone a Dio, alla sua azione e alla sua signoria.
Il dominio della carne si manifesta quando la superbia, l’orgoglio, peccati difficili da riconoscere e più pericolosi, possono rivestirsi esteriormente di devozione e inducono l’uomo a ridurre Dio ad oggetto del proprio pensiero, manipolandolo, possedendolo e dominandolo, pervertendo così ledimensio-ni più nobili dell’animo umano.
L’uomo spirituale invece che è abitato dallo Spirito di Cristo, è colui che vive nel regno della grazia, che vive unito a Cristo, gli appartiene e Il Signore gli assicura la risurrezione con lui. La condotta del cristiano deve rivelare la presenza in lui dell’azione dello Spirito di Cristo e manifestare l’assoluta novità del suo modo di vivere.
Vangelo: Mt 11,25-30.
Gesù, nel brano del Vangelo di oggi, ringrazia e loda il Padre celeste perché, nella sua benevolenza, ha deciso di nascondere ai sapienti e ai dotti della terra i misteri del regno dei cieli, mentre li ha rivelati ai piccoli. Avendo il Padre dato a lui tutto, dice Gesù, nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui a cui questi lo rivela.
Gesù ancora esorta tutti coloro che sono stanchi ed oppressi ad andare a lui per trovare ristoro; a prendere su di sé il suo « giogo » che è dolce e il suo « pe- so » leggero e ad imparare da lui che è mite ed umile di cuore, se si vuole trovare ristoro nella propria vita.
Nella relazione con Dio l’uomo spirituale riconosce che tutto gli viene per grazia e, nel percepire la sproporzione della gratuità, diventa cosciente del dono di sé che Dio, immeritatamente, gli offre.
In un contesto di rifiuto della rivelazione che Gesù fa e delle sue opere, la fede dei piccoli, degli umili, più che essere conquista deve essere libera risposta dell’uomo alla Parola che lo raggiunge, lo interpella e lo coinvolge e non orgogliosa presunzione di sapere su Dio, che si rivela ai semplici, ai piccoli e agli umili nella « sua benevolenza »(Mt11,26).
Chi è superbamente gonfio di sé, nei propri pregiudizi, nella propria bravura e nella propria illusoria giustizia, non riesce a comprendere il mistero di Gesù e della sua unità col Padre. Non riesce a conoscerlo e ad amarlo. La rivelazione di Gesù è concessa come grazia « ai piccoli », agli umili, aperti alla Parola di Dio. Questi, affidandosi a Cristo nei loro affanni, nella loro situazione di dolore, di disagio, di rifiuto da parte dei potenti, di prova, trovano serenità e pace.Nella ricerca teologica o nell’accogliere la rivelazione di Dio da parte di qualunque credente, è necessario un atteggiamento di umiltà, la consapevolezza della propria piccolezza in ragione della sproporzione che vi è fra lui e Dio. Il Vangelo non è un giogo che schiaccia, ma un sollievo per chi lo viva con sincerità e coerenza.