Dio, nella sua paternità, fa giustizia ai suoi poveri con cui dobbiamo condividere i beni che ci dà.
25 SETTEMBRE – XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO.
La domenica siamo invitati da Dio, riuniti nel nome della Santa Trinità, a prendere parte al memoriale della passione del suo Figlio. Nella sua misericordia Dio manifesta la sua onnipotenza donandoci il suo perdono. Pur essendo noi peccatori, il Padre celeste ci accoglie e ci fa partecipi del banchetto eucaristico del Corpo e del Sangue del suo Figlio, che sono cibo e bevanda di vita eterna. Attorno a Cristo, assisi alla stessa mensa, non possiamo più ammettere l’ingiustizia, il disprezzo verso qualunque fratello. Non possiamo sentirci tranquilli restando nel nostro egoismo e non condividendo la provvidenza di Dio con chi è nel bisogno. L’Eucaristia ci fa aprire verso i beni dell’eredità eterna che godremo con Cristo nel cielo, ma che già pregustiamo in questo convito domenicale. Da questa sorgente deriva per la Chiesa ogni benedizione.
Nella Colletta iniziale dell’Eucaristia ci rivolgiamo al Padre celeste dicendo: « O Dio, tu chiami per nome i tuoi poveri, mentre non ha nome il ricco epulone; stabilisci con giustizia la sorte di tutti gli oppressi, poni fine all’ orgia degli spensierati, e fa’ che aderiamo in tempo alla tua Parola, per credere che il tuo Cristo è risorto dai morti e ci accoglierà nel suo regno ».
Prima Lettura: Am 6,1.4-7
Il profeta Amos denunzia il comportamento spensierato degli abitanti di Sion e di quelli di Samaria, minacciando guai per la loro mollezza di vita, perché comodamente sdraiati nelle mollezze e nei divertimenti « mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla ». Si divertono cantando e imitando Davide con improvvisati strumenti musicali; bevendo vino e ungendosi di profumi raffinati, mentre trascurano e non si curano della rovina di Giuseppe, cioè dei poveri del popolo del Signore. Preannunzia ad essi l’esilio e così si porrà fine all’ orgia dei dissoluti. Il profeta, denunzia con vigore, le ingiustizie sociali, i divertimenti e i bagordi che offendono la povertà dei miseri del popolo, a cui Dio farà giustizia..
Seconda Lettura: 1Tm 6,11-16.
Paolo esorta Timoteo a praticare la giustizia, la pietà, la fede , la carità, la pazienza e la mitezza, cercando così di raggiungere la vita eterna a cui è chiamato e per la quale ha fatto la sua professione di fede.
Gli ordina ancora, davanti a Dio, creatore che dà la vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che davanti a Ponzio Pilato ha dato la sua bella testimonianza, a conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore Gesù, « che sarà a noi mostrata da Dio, il beato e unico Sovrano, il Re dei re e Signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità e abita una luce inaccessibile » e che nessuno tra gli uomini ha mai visto. Come guida della Comunità di fede, Timoteo deve, quindi, farsi modello con una condotta mite, caritatevole, ma battagliero nella propagazione e difesa della fede, dandone bella testimonianza e conservando integro e intatto il Vangelo, fino alla venuta del Signore, quando si manifestarà nella sua gloria.
Vangelo: 16,19-31.
La parabola del ricco epulone, raccontata da Gesù, pone una netta contrapposizione tra la vita di un « uomo ricco che indossa vestiti di porpora e bisso, ogni giorno banchetta lautamente » e del « povero Lazzaro che, stando davanti alla sua porta, coperto di piaghe, era bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco ». Morendo entrambi, il povero viene condotto dagli angeli accanto ad Abramo, mentre il ricco, sepolto, ritrovandosi « negli inferi fra i tormenti » alzando gli occhi vede da lontano Abramo e Lazzaro insieme. Sentendosi la gola riarsa per la sete, invoca Abramo perché abbia pietà di lui e che mandi Lazzaro ad intingere il dito nell’acqua per bagnargli la lingua. Ma Abramo gli risponde che egli nella sua vita ha ricevuto molti beni mentre Lazzaro i suoi mali e che, ora, questi è consolato e lui si trova in mezzo ai tormenti; che, inoltre, è impossibile a Lazzaro, per il grande abisso che li separa, di poter andare da lui a compiere quello che desidera. Alla richiesta del ricco che insiste perché Lazzaro venga mandato dai suoi fratelli, i quali vivono come aveva fatto lui, per ammonirli severamente a cambiar vita, per non ritrovarsi anche essi negli stessi tormenti, Abramo risponde che hanno Mosè e i profeti e che ascoltino loro. Infine, poiché il ricco replica che i suoi fratelli, vedendo Lazzaro risorgere, si sarebbero convertiti e cambiato vita, Abramo risponde: « Se non ascoltano Mosè e i Profeti,non saranno persuasi neanche se uno risorge dai morti ». La parabola di Gesù, in sintonia con l’insegnamento di Amos, pone la sorte dei poveri rispetto ai ricchi, che banchettano e godono in questa vita e si danno spensierati ad ogni sorta di divertimento, in un contrappasso e in un rovesciamento di situazioni irreversibili. Ascoltando la parola del Signore che esorta a usare le ricchezze e i beni con distacco, avendo attenzione per i fratelli che sono in necessità e un cuore libero e aperto ai veri segni di Dio, anche il ricco può ritrovarsi nella gioia futura della vita ultraterrena.
La ricchezza è una continua tentazione che può spingere ad attaccarvi il cuore, farlo chiudere nell’egoismo e in una cecità che non fa più vedere le necessità in cui versano i fratelli più poveri, privi, spesso, anche dell’estremo necessario..
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Ringraziare il Signore per i suoi doni e benefici e amministrarli bene.
18 SETTEMBRE - XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Il nostro incontro domenicale, nel giorno del Signore, rivela l’amore verso Dio, vissuto in unione con Cristo, nostro Capo e Signore, e verso il nostro prossimo. Questo amore è stato posto da Gesù a fondamento di tutta la legge. Nell’Eucaristia esprimiamo la nostra adorazione di figli a Dio, ricono-scendolo come unico Signore, riaffermiamo la nostra volontà di non sostituire niente a Lui e di rinnovare, nel giorno a lui dedicato, il nostro amore di figli e di fratelli. Mancando di questo amore, per Dio e i fratelli, è difficile vivere la domenica con una fraternità attiva e creativa, per cui la si sente come un obbligo gravoso, e non come lode a Dio e servizio evangelico. Diventa allora la Domenica una verifica e un modo per misurare l’autenticità della nostra fedeltà al Signore e della nostra fraterna carità verso il prossimo. Nell’incontro con Dio, i misteri che celebrano la salvezza, operata da Cristo, dovrebbero trasformare la nostra esistenza.
Nella preghiera che oggi, giorno del Signore, eleviamo a Dio, diciamo: « O Padre, che ci chiami ad amarti e servirti come unico Signore, abbi pietà della nostra condizione umana; salvaci dalla cupidigia delle ricchezze, e fa’ che alzando al cielo mani libere e pure, ti rendiamo gloria con tutta la nostra vi-ta».
Prima Lettura: Am 8,4-7.
Il Signore, per mezzo del profeta Amos, rimprovera quelli che nel suo popolo calpestano il povero e sterminano gli umili e si domandano quando passa il novilunio per vendere il grano; o il sabato per poter smerciare il frumento, diminuendo l’efa e aumentando il siclo; usando bilance false per comprare con denaro gli indigenti o il povero per un paio di sandali e vendere lo scarto del grano. Per tutto questo il Signore dice:« Certo, non dimenticherò mai tutte le loro opere ».
Imbrogliare, approfittare e calpestare il povero nel momento del suo bisogno è per il Signore peccato gravissimo, perché è Dio stesso a proteggere il povero, difendendolo dalle angherie di chi con denaro vuole sfruttarlo. L’amore per Dio e l’amore al prossimo non può scindersi: chi offende e fa Ingiustizia al prossimo, specie se povero e umile, offende Dio stesso.
Seconda Lettura: 1 Tm 2,1-8.
Paolo raccomanda a Timoteo, soprattutto, che si facciano a Dio domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che governano, perché si possa condurre una vita tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio. Tutto questo è cosa bella e gradita a Dio, perché egli vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità: perché uno solo è Dio e uno solo il mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che è morto per riscattare tutti gli uomini dalle loro iniquità. Lui, Paolo, è stato fatto banditore e apostolo di questa testimonianza che Cristo ha dato nei tempi stabiliti, divenendo maestro dei pagani nella fede e nella verità. Chiude la sua esortazione concludendo: « Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure e senza contese ». All’unico Dio, padre di tutti, che ha riconciliato a sé l’umanità, mediante Cristo Gesù, suo Figlio, unico mediatore che si è offerto per la liberazione dei uomini dal peccato, si elevino preghiere, suppliche e ringraziamenti da parte di tutti coloro che partecipano alla preghiera della comunità cristiana, perché la vita degli uomini si svolga nella serenità e nella pace. Bisogna allora allontanare contese, liti e scontri, cose che producono solo divisioni e non fanno realizzare l’amore che ci rende fratelli in Cristo e figli di un unico padre.
Vangelo: Lc 16,1-13.
Il Vangelo, attraverso la parabola dell’amministratore infedele, vuole esortarci a vivere il rapporto con Dio, che ci dà da amministrare i suoi doni: la nostra vita, le nostre capacità e ciò che la sua provvidenza ci concede, per la sua gloria e senza servire lui e altri idoli, come il denaro, il potere, ecc. A Dio tutti dobbiamo rendere conto dell’amministrazione di questi beni.
L’amministratore della parabola, pensando che, una volta esonerato dall’amministrazione, si sarebbe trovato in difficoltà, non sapendo fare altro per guadagnarsi la vita, si fa degli amici, in maniera iniqua, con la ricchezza del padrone e, riducendo ciò che essi devono al suo padrone, spera un domani di essere accolto e aiutato da loro. Gesù, concludendo la parabola, dice che il padrone lodò la scaltrezza di quell’amministratore disonesto e che i figli di questo mondo, verso i loro pari, sono più scaltri dei figli della luce. Esorta, quindi, gli ascoltatori a farsi degli amici con la ricchezza disonesta aiutando gli altri, come ha fatto quell’amministratore, perché quando i beni amministrati verranno meno, si possa essere accolti nelle dimore eterne da coloro che sono stati aiutati nella loro esistenza terrena.. Concludendo così Gesù il suo insegnamento dice: « Chi è fedele in cose da poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra ».
Anche i discepoli del Signore devono essere scaltri quindi, non con la disonestà, ma cercando di farsi degli amici distribuendo le ricchezze e ponendo i beni di cui dispongono, materiali e spirituali, che si è chiamati ad amministrare al servizio dei fratelli: essi allora intercederanno per loro presso Dio, quando, chiamati in giudizio, testimonieranno della carità vissuta nel loro confronti. Amministrare bene i doni del Signore significa ricevere un giorno i beni veri ed eterni.
Ringraziare il Signore per i suoi doni e benefici e amministrarli bene.
18 SETTEMBRE - XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Il nostro incontro domenicale, nel giorno del Signore, rivela l’amore verso Dio, vissuto in unione con Cristo, nostro Capo e Signore, e verso il nostro prossimo. Questo amore è stato posto da Gesù a fondamento di tutta la legge. Nell’Eucaristia esprimiamo la nostra adorazione di figli a Dio, ricono-scendolo come unico Signore, riaffermiamo la nostra volontà di non sostituire niente a Lui e di rinnovare, nel giorno a lui dedicato, il nostro amore di figli e di fratelli. Mancando di questo amore, per Dio e i fratelli, è difficile vivere la domenica con una fraternità attiva e creativa, per cui la si sente come un obbligo gravoso, e non come lode a Dio e servizio evangelico. Diventa allora la Domenica una verifica e un modo per misurare l’autenticità della nostra fedeltà al Signore e della nostra fraterna carità verso il prossimo. Nell’incontro con Dio, i misteri che celebrano la salvezza, operata da Cristo, dovrebbero trasformare la nostra esistenza.
Nella preghiera che oggi, giorno del Signore, eleviamo a Dio, diciamo: « O Padre, che ci chiami ad amarti e servirti come unico Signore, abbi pietà della nostra condizione umana; salvaci dalla cupidigia delle ricchezze, e fa’ che alzando al cielo mani libere e pure, ti rendiamo gloria con tutta la nostra vi-ta».
Prima Lettura: Am 8,4-7.
Il Signore, per mezzo del profeta Amos, rimprovera quelli che nel suo popolo calpestano il povero e sterminano gli umili e si domandano quando passa il novilunio per vendere il grano; o il sabato per poter smerciare il frumento, diminuendo l’efa e aumentando il siclo; usando bilance false per comprare con denaro gli indigenti o il povero per un paio di sandali e vendere lo scarto del grano. Per tutto questo il Signore dice:« Certo, non dimenticherò mai tutte le loro opere ».
Imbrogliare, approfittare e calpestare il povero nel momento del suo bisogno è per il Signore peccato gravissimo, perché è Dio stesso a proteggere il povero, difendendolo dalle angherie di chi con denaro vuole sfruttarlo. L’amore per Dio e l’amore al prossimo non può scindersi: chi offende e fa Ingiustizia al prossimo, specie se povero e umile, offende Dio stesso.
Seconda Lettura: 1 Tm 2,1-8.
Paolo raccomanda a Timoteo, soprattutto, che si facciano a Dio domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che governano, perché si possa condurre una vita tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio. Tutto questo è cosa bella e gradita a Dio, perché egli vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità: perché uno solo è Dio e uno solo il mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che è morto per riscattare tutti gli uomini dalle loro iniquità. Lui, Paolo, è stato fatto banditore e apostolo di questa testimonianza che Cristo ha dato nei tempi stabiliti, divenendo maestro dei pagani nella fede e nella verità. Chiude la sua esortazione concludendo: « Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure e senza contese ». All’unico Dio, padre di tutti, che ha riconciliato a sé l’umanità, mediante Cristo Gesù, suo Figlio, unico mediatore che si è offerto per la liberazione dei uomini dal peccato, si elevino preghiere, suppliche e ringraziamenti da parte di tutti coloro che partecipano alla preghiera della comunità cristiana, perché la vita degli uomini si svolga nella serenità e nella pace. Bisogna allora allontanare contese, liti e scontri, cose che producono solo divisioni e non fanno realizzare l’amore che ci rende fratelli in Cristo e figli di un unico padre.
Vangelo: Lc 16,1-13.
Il Vangelo, attraverso la parabola dell’amministratore infedele, vuole esortarci a vivere il rapporto con Dio, che ci dà da amministrare i suoi doni: la nostra vita, le nostre capacità e ciò che la sua provvidenza ci concede, per la sua gloria e senza servire lui e altri idoli, come il denaro, il potere, ecc. A Dio tutti dobbiamo rendere conto dell’amministrazione di questi beni.
L’amministratore della parabola, pensando che, una volta esonerato dall’amministrazione, si sarebbe trovato in difficoltà, non sapendo fare altro per guadagnarsi la vita, si fa degli amici, in maniera iniqua, con la ricchezza del padrone e, riducendo ciò che essi devono al suo padrone, spera un domani di essere accolto e aiutato da loro. Gesù, concludendo la parabola, dice che il padrone lodò la scaltrezza di quell’amministratore disonesto e che i figli di questo mondo, verso i loro pari, sono più scaltri dei figli della luce. Esorta, quindi, gli ascoltatori a farsi degli amici con la ricchezza disonesta aiutando gli altri, come ha fatto quell’amministratore, perché quando i beni amministrati verranno meno, si possa essere accolti nelle dimore eterne da coloro che sono stati aiutati nella loro esistenza terrena.. Concludendo così Gesù il suo insegnamento dice: « Chi è fedele in cose da poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra ».
Anche i discepoli del Signore devono essere scaltri quindi, non con la disonestà, ma cercando di farsi degli amici distribuendo le ricchezze e ponendo i beni di cui dispongono, materiali e spirituali, che si è chiamati ad amministrare al servizio dei fratelli: essi allora intercederanno per loro presso Dio, quando, chiamati in giudizio, testimonieranno della carità vissuta nel loro confronti. Amministrare bene i doni del Signore significa ricevere un giorno i beni veri ed eterni.
Il Padre celeste, per l'intercessione di Gesù, dona il suo perdono all'uomo che si pente.
11 SETTEMBRE – XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO.
Nell’ Eucaristia, ricevendo il Corpo e il Sangue di Cristo, i cristiani entrano in comunione con lo Spirito Santo che rende presente nel pane e nel vino il loro Signore.
La potenza di Cristo e l’azione del suo Spirito trasforma non solo questi doni ma anche noi con i nostri sentimenti, le nostre tendenze e ci trasfigura in lui. E’ lo Spirito Santo, che viene invocato nelle preghiere eucaristiche, a trasformare i nostri semplici doni nel Cristo e raccogliere e formare anche la Chiesa, unendola a lui in maniera intima.
L’assemblea liturgica, attraverso il perdono che viene chiesto, è rigenerata con un cuore nuovo dallo Spirito, che apre i credenti al pentimento e alla conversione, dando loro la forza di perdonare a loro volta e di dare la vita per salvarla, come fa Cristo. Il dono dello Spirito non è meritato da noi ma dall’intercessione del Signore Gesù, mediatore di grazia , che ci unisce a sé quando nel suo nome siamo riuniti per rendere grazie al Padre.
Nella colletta iniziale, rivolti al Signore lo supplichiamo dicendo: « O Dio, che per la preghiera del tuo servo Mosè non abbandonasti il popolo ostinato nel rifiuto del tuo amore, concedi alla tua Chiesa per i meriti del tuo Figlio, che intercede sempre per noi, di far festa insieme agli angeli anche per un solo peccatore che si converte ».
Prima Lettura: Es 32,7-11.13-14.
Mentre Mosè è sul monte, il Signore gli dice di scendere perché il popolo, liberato dall’Egitto, si è pervertito, si è allontanato dalla via indicata da Lui avendosi fatto un vitello d’oro, davanti al quale offre sacrifici, attribuendogli la liberazione dalla schiavitù. Ancora: il Signore dice a Mosè che il popolo è di dura cervice e, perciò, nella sua ira, ha deciso di distruggerlo, mentre di lui ne avrebbe fatto una grande nazione.
Mosè allora, rivolgendosi al Signore, lo supplica dicendo:« Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto…? Ricordati di Abramo, di Isacco, di Giacobbe…ai quali hai giurato per te stesso e hai detto” Renderò la vostra posterità numerosa… e tutta questa terra la darò ai tuoi discendenti che la possederanno per sempre ». Così il Signore si pente del male che ha minacciato di fare al popolo.
Davanti all’ infedeltà e alla pervertimento del popolo, oggetto della sua predilezione, che si è dato ad adorare un vitello, il quale non è così esigente come lo è il Dio dell’alleanza, il Signore, per la preghiera di Mosè, storna la sua ira, perché la sua misericordia è più grande e più forte: Dio per la sua promessa di salvezza e in ricordo dell’alleanza, accogliendo l’intercessione di Mosè, concede il suo perdono. Ora che con la nuova ed eterna alleanza in Cristo, mediante il suo sacrificio sulla croce, è stabilita l’universale riconciliazione dell’umanità con il Padre, dobbiamo aver fiducia nel suo perdono e nella sua grande misericordia. Nella Messa, memoriale che realizza nel tempo della Chiesa, per opera dello Spirito e della potenza di Dio, la salvezza, è il Figlio stesso che intercede presso il Padre per la remissione dei peccati e per essere partecipi delle benedizioni celesti.
Seconda Lettura: 1Tm 1,12-17.
San Paolo, scrivendo a Timòteo e ricordando la sua vita di bestemmiatore, persecutore e violento, ringrazia Cristo Gesù che lo ha reso forte e, nella sua misericordia, lo ha giudicato degno di porlo al suo servizio. Mentre nel suo agire precedente era prevalsa l’ignoranza e la lontananza dalla fede, ora la grazia di Cristo ha sovrabbondato in lui insieme alla fede e alla carità. Così egli proclama che tutti debbano accogliere Cristo Gesù, venuto nel mondo per salvare i peccatori, di cui egli si riconosce, per la sua vita passata, di esserne il primo. Avendo, quindi, dal Signore ottenuto misericordia per la sua conversione a lui, Gesù ha voluto in lui, per primo, dimostrare tutta la sua magnanimità, perché fosse « di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna ». Paolo riconosce che il ministero di apostolo, affidatogli direttamente da Cristo, è una grazia singolare: proclamare la magnanimità del Signore, speranza di salvezza per tutti gli uomini peccatori. Per questo l’apostolo esorta a rendere onore e gloria al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio nei secoli dei secoli.
Vangelo: Lc 15,1-32.
Gesù, davanti alle mormorazioni di farisei e scribi perché accoglie i peccatori e mangia con loro, racconta la parabola del pastore che, contando le pecore e accorgendosi che ne manca una, lascia al sicuro nell’ovile le novantanove e va in cerca della smarrita; trovatala, pieno di gioia se la pone sulle spalle, va a casa, invita amici e vicini, e dice: « Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che era perduta »; della donna che, se ha dieci monete e ne perde una, accende la lampada, spazza la casa e la cerca accuratamente finché non la trova; trovatala chiama amiche e vicine e dice: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduta ». Infine Gesù racconta la parabola del « Figlio prodigo », che, chiedendo al padre di dargli la sua parte di eredità e allontanandosi dalla casa paterna, sperpera tutto il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Trovandosi quindi nel bisogno, ridotto in estrema povertà, si mette al servizio di uno degli abitanti della regione che lo manda a pascolare i porci e avrebbe voluto, per la fame, saziarsi delle carrube; ma nessuno gli dava nulla. Ripensando infine all’abbondanza che vi era nella casa del padre e a lui che muore di fame, decide di alzarsi, ritornare da suo padre e dirgli, pentito, di aver peccato verso il Cielo e davanti a lui, di non essere più degno di essere chiamato suo figlio e di essere trattato come uno dei tanti salariati. Così, alzandosi, decide di tornare da suo padre.
Quando questi lo scorge da lontano, vedendolo, ne ha compassione, gli corre incontro, gli si getta al collo e lo bacia. Ai servi ordina di vestirlo con il vestito più bello, mettergli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Ancora: di prendere un vitello grasso, ammazzarlo per mangiare e far festa, perché: « mio figlio – dice - era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato ».
Ma il figlio maggiore, saputo il motivo della festa organizzata per il ritorno del fratello, che è ritornato sano e salvo, non ascoltando neanche la supplica del padre, non vuole entrare a far festa. Inoltre, dice al padre che, pur essendo lui sempre in casa, avendolo servito da tanti anni e non averlo mai disobbedito, non gli ha mai dato un capretto per far festa con i suoi amici, mentre invece, per il figlio che ha dilapidato e divorato le sue sostanze con le prostitute, per lui ha ammazzato il vitello grasso. Il padre gli risponde: « Bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato ».
Conclude Gesù le parabole dicendo che « ci sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione …. E che vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte ».
L’amore di Dio Padre è disposto a perdonare, nella sua misericordia, qualunque peccato che ci allontana da lui, purché si ritorni a lui sinceramente pentiti.
Dio viene incontro all’ uomo, che si allontana da lui con il peccato, con la premura del pastore che cerca, trova e porta la pecorella smarrita all’ ovile; si dà da fare con la preoccupazione e l’ ansia di quella donna che non si dà pace finché non ci riporta al suo amore; che ci aspetta, con la tenerezza invincibile del padre finché, come figli prodighi, non ritorniamo al suo abbraccio e, ricolmandoci di tutti i suoi beni, ci riporta alla dignità di figli. Il comportamento del Padre celeste, come anche il perdono che Gesù dà, nel suo potere divino, ai peccatori e che la Chiesa è chiamata ad esercitare per suo comando, può suscitare , in coloro che si credono, illudendosi, di essere giusti, scandalo. Invece Gesù esorta coloro che vogliono essere veramente giusti e amorevoli verso i fratelli, come lo è Dio, a gioire perché i peccatori si convertono e a chiederci se peccatori non lo siamo proprio noi. E se ci convertiamo avremo accresciuto la gioia in cielo.
La sapienza di Dio: quella data agli uomini e quella della Croce di Cristo deve guidare gli uomin
4 SETTEMBRE – XXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO.
Nella celebrazione della Messa ci accostiamo a due mense: « quella della Parola di Dio » e « quella del pane della vita ». Entrambi questi doni sono lui stesso: E’ Cristo, la Parola, la sapienza che è diffusa nella Scritture e soprattutto nel Vangelo, che con il suo insegnamento, ci guida e illumina nella vita quotidiana, per una continua ricerca della volontà di Dio Padre, così come è il pane della vita, datoci in cibo. In segno di riconoscenza a Dio per questi doni, noi celebriamo nella Messa il nostro ringraziamento e la nostra lode con la preghiera. Come figli lodiamo, adoriamo ed esprimiamo la pietà dei « figli adottivi, resi partecipi della vita divina, destinati alla vita eterna ed eredi del regno di Dio, pur nella nostra povertà e piccolezza ». Tutto questo lo condividiamo con i fratelli, con cui siamo uniti dalla stessa sorte secondo quando ci ha insegnato Gesù con il comandamento dell’amore fraterno, che compendia tutta la legge e i profeti.
Nella Colletta iniziale preghiamo dicendo: « O Dio, tu sai come a stento ci raffiguriamo le cose terrestri, e con quale maggiore fatica possiamo rintracciare quelle del cielo; donaci la sapienza del tuo Spirito, perché da veri discepoli portiamo la nostra croce ogni giorno dietro il Cristo tuo Figlio ».
Prima Lettura: Sap 9,13-18.
Nessuno, ci dice il Libro della Sapienza, può conoscere il pensiero di Dio, né cosa Egli vuole. Timidi sono i ragionamenti dell’uomo e incerte le sue riflessioni, perché il suo corpo corruttibile e d’argilla appesantisce l’anima e rende la mente piena di preoccupazioni. Chi può conoscere le cose celesti se a stento immaginiamo le terrene e fatica conosciamo quelle a portata di mano?. E’ per la sapienza data da Dio all’ uomo e avergli inviato dall’ alto il suo santo spirito che l’uomo può conoscere il suo volere. Per questo sono stati raddrizzati i sentieri di chi cammina sulla terra: gli uomini sono stati istruiti su ciò che è gradito al Signore e vengono salvati per mezzo della sapienza.
Seguire la sapienza di Dio, posta da lui nell’ uomo, può farlo giungere alla salvezza. La sapienza è un dono di Dio e frutto dello Spirito Santo. Da solo, allora, l’uomo, con le sue sole forze, fa fatica a raggiungere la salvezza, perché nella sua fragilità non ne è facilmente capace. La venuta del suo Figlio, Sapienza eterna, ha portato agli uomini, nella pienezza dei tempi, la parola e la strada sicura per giungere alla salvezza.
Seconda Lettura: Fm 9,10.12-17.
Paolo, esortando Filèmone a cui scrive, lo invita a trattare bene Onèsimo, schiavo messo a disposizione dell’apostolo in catene, da lui generato come figlio per il battesimo e a lui caro. Pur desiderando tenerlo ancora con sé per assisterlo, rimandandolo a Filèmone perché rimanga per sempre con lui, gli scrive: « Non ho voluto fare nulla senza il tuo parere, perché il bene che fai non sia forzato, ma volontario ». Ancora: lo esorta ad averlo non più come schiavo, ma come fratello carissimo: « in primo luogo per me, ma ancora più per te, sia come uomo sia come fratello nel Signore ». E se considera Paolo amico, accolga Onèsimo come se accogliesse lui.
Discrezione e tenerezza caratterizzano le parole di Paolo nel ringraziare Filèmone per aver messo a sua disposizione Onèsimo e nell’invitarlo a considerare questi, divenuto ormai cristiano da lui generato per il battesimo, come fratello nel Signore. La fede e la grazia, che ci rigenerano come figli di Dio, in Cristo Gesù, sono a fondamento della libertà e della fraternità cristiane, di cui sono insigniti i cristiani, che quindi agiscono con la libertà, la spontaneità e la validità derivanti dall’amore e non dalla costrizione.
Vangelo: 14,25-33.
Gesù, alla folla numerosa che lo seguiva, disse: « Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita non può essere mio discepolo » e prosegue ancora: « Colui che non porta la propria croce e non viene dopo a me, non può essere mio discepolo ». Parole forti e impegnative quelle del Signore, che non vogliono dire che non si debbano amare coloro che sono vicini a noi negli affetti, ma che questi affetti non devono precedere l’amore per lui e il seguirlo da discepoli. Attraverso due brevi parabole, della torre da costruire o del re che deve andare in guerra contro un altro re, Gesù insegna che bisogna ponderare le possibilità che ognuno ha, prima di intraprendere un’impresa, se può portarla compimento, per evitare di restare a metà dell’opera e di essere deriso, o di mandare un’ambasceria al nemico per chiedere la pace, se le sue forze militari sono inferiori e non rischiare la sconfitta. E conclude: « Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi avere, non può essere mio discepolo ». Per seguire il Signore sono necessarie determinazione, coerenza, ponderatezza e, in aggiunta, si richiede distacco da tutto, avendo solo Cristo come l’assoluto, a cui non anteporre nessun altro. Ogni altro legame, che non può essere trascurato, deve essere vissuto in lui. Seguire Cristo significa condividere il suo stesso destino, morto sulla croce: seguirlo portando ognuno dietro a lui la propria croce, che non manca a nessuno e, partecipando alle sue sofferenze, completare ognuno, nel proprio corpo, ciò che manca ai patimenti di Cristo a favore della Chiesa, come scrive Paolo. Alimentare il coraggio e seguirlo con la pazienza dei figli di Dio possiamo farlo vivendo il sacramento della Croce, l’Eucaristia.