





Vivere secondo lo Spirito di Cristo.
6 LUGLIO – XIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Nella preghiera della colletta di oggi chiediamo al Signore dicendo: « O Dio, che ti riveli ai piccoli e doni ai miti l’eredità del tuo regno, rendici poveri, liberi ed esultanti, a imitazione del Cristo tuo Figlio, per portare con lui il giogo soave della croce e annunziare agli uomini la che viene da te ». La gioia che viene dal Signore, che si rinnova con la grazia che Dio ci dona nella domenica, pasqua settimanale della Chiesa, ci fa essere capaci di imitare Gesù, essere poveri, liberi ed esultanti anche nel portare la croce e di annunziarla a tutti. La condizione di questa gioia è che dobbiamo essere « liberi dall’oppressione della colpa », da quel giogo del peccato che, facendoci chiudere nel nostro egoismo, ci immiserisce sempre più. « Il giogo soave della croce », che ci sgombra il cuore, ci fa imitare nella sua « umiliazione », e, quindi, ci rende disponibili proprio perché non più attaccati a noi stessi, a portare « in ogni ambiente di vita la parola d’amore e di pace », il Vangelo che è annunzio ed esperienza di gioia pasquale.
Le letture della liturgia di oggi ci parlano di un Messia umile. Secondo le parole del profeta Zaccaria egli si manifesta al mondo cavalcando un asino. E’ Gesù il Messia mite ed umile di cuore annunziato dal profeta che chiama a sé gli affaticati e porta la salvezza del Padre.
Prima Lettura: Zc 9,9-10.
Il profeta Zaccaria invita la figlia di Sion, la figlia di Gerusalemme, ad esultare e giubilare, annunziando che il suo re, giusto e vittorioso, umile, cavalcante un asino, viene a lei. Egli farà sparire la guerra, l’arco di guerra sarà spezzato e verrà annunziata la pace alle nazioni. Il suo dominio sarà esteso fino ai confini della terra.
Non nella prepotenza o con le armi ma nella giustizia e nella pace si realizzerà la vittoria di colui che Dio manda in Gerusalemme, poiché sarà un re mite ed umile, senza segni che appartengono alla mentalità terrena. La sua non sarà una regalità mondana, come l’aspettava Israele, ma saranno la mitezza, l’umiltà, la giustizia e la pace a trasformare gli uomini. Sarà Gesù di Nazaret, che entra in Gerusalemme, con questi segni, cavalcando un puledro, a realizzare questa profezia e a portare la pace, la giustizia e la regalità di Dio, che non sono di questo mondo come dice Gesù a Pilato.
Seconda Lettura: Rm 8,9.11-13.
San Paolo scrive ai Romani, che essendo diventati figli di Dio attraverso il battesimo, animati dal suo Spirito appartengono a Cristo e non sono più sotto il dominio della carne, e li esorta a vivere secondo lo Spirito di Dio che abita in loro. « E se lo Spirito di Dio » continua « che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi ».
Dunque, conclude, che non sono più debitori verso la carne per vivere secondo i desideri carnali che conducono alla morte, ma mediante lo Spirito devono far morire le opere della carne per avere la vita divina in loro.
L’appartenenza a Cristo dell’uomo, rinato dallo Spirito di Dio, gli assicura la risurrezione del suo corpo mortale a condizione che egli faccia vivere in lui le opere dello Spirito di Cristo. Liberato dal potere della carne, con la grazia che Dio gli offre, l’uomo può, dunque, vivere la vita divina e attendere, nella speranza, la risurrezione finale che lo introdurrà nella realtà eterna di Dio.
Tutta la condotta del cristiano deve manifestare questa novità di vita secondo lo Spirito di Dio, attraverso i frutti dello Spirito che sono amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé, come scrive Paolo ai Galati. Far morire le opere della carne non vuol dire far morire la vita nella sua corporeità fisica, ma quella vita di male che conduce alla morte spirituale.
L’uomo di carne è inteso, secondo il pensiero di san Paolo, non come corpo o nella sua sessualità solamente, ma in tutta la sua realtà di fragilità, di debolezza, di condizione di schiavitù sotto il potere del peccato e in quanto si oppone a Dio, alla sua azione e alla signoria.
Il dominio della carne si manifesta quando la superbia, l’orgoglio, peccati difficili da riconoscere e più pericolosi, possono rivestirsi esteriormente di devozione e inducono l’uomo a ridurre Dio ad oggetto del proprio pensiero, manipolandolo, possedendolo e dominandolo, pervertendo così le dimensioni più nobili dell’animo umano.
L’uomo spirituale, invece, che è abitato dallo Spirito di Cristo, è colui che vive nel regno della grazia, che vive unito a Cristo, gli appartiene e il Signore gli assicura la risurrezione con lui.
La condotta del cristiano deve rivelare la presenza in lui dell’azione dello Spirito di Cristo e manifestare l’assoluta novità del suo modo di vivere.
Vangelo: Mt 11,25-30.
Gesù, nel brano del Vangelo di oggi, ringrazia e loda il Padre celeste perché, nella sua benevolenza, ha deciso di nascondere ai sapienti e ai dotti della terra i misteri del regno dei cieli, mentre li ha rivelati ai piccoli. Avendo il Padre dato a lui tutto, dice Gesù, nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui a cui questi lo rivela.
Gesù ancora esorta tutti coloro che sono stanchi ed oppressi ad andare a lui per trovare ristoro; a prendere su di sé il suo « giogo » che è dolce e il suo« peso » leggero e ad imparare da lui che è mite ed umile di cuore, se si vuole trovare ristori nella propria vita.
Nella relazione con Dio l’uomo spirituale riconosce che tutto gli viene per grazia e, nel percepire la sproporzione della gratuità, diventa cosciente del dono di sé che Dio, immeritatamente, gli offre.
In un contesto di rifiuto della rivelazione che Gesù fa e delle sue opere, la fede dei piccoli, degli umili, più che essere conquista deve essere libera risposta dell’uomo alla Parola che lo raggiunge, lo interpella e lo coinvolge e non orgogliosa presunzione di sapere su Dio, che si rivela ai semplici, ai piccoli e agli umili nella sua benevolenza.
Chi è superbamente gonfio di sé, nei propri pregiudizi, nella propria bravura e nella propria illusoria giustizia, non riesce a comprendere il mistero di Gesù e della sua unità con il Padre. Non riesce a conoscerlo e ad amarlo. La rivelazione di Gesù è concessa come grazia ai piccoli e agli umili, aperti alla Parola di Dio. Questi, affidandosi a Cristo nei loro affanni, nella loro situazione di dolore, di disagio, di rifiuto da parte dei potenti, di prova, trovano serenità e pace. Nella ricerca teologica o nell’accogliere la rivelazione di Dio da parte di qualunque credente, è necessario un atteggiamento di umiltà, la consapevolezza della propria piccolezza in ragione della sproporzione che vi è fra lui e Dio. Il Vangelo non è un giogo che schiaccia, ma un sollievo per chi lo vive con sincerità e coerenza.
L''accoglienza del profeta, del discepolo, di ogni uomo è accogliere Cristo.
2 LUGLIO – XIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Il Signore, nella liturgia della Domenica, attraverso i segni sacramentali, compie il progetto della redenzione liberando gli uomini dalle tenebre del male e del peccato. Donandoci lo Spirito Santo, con la sua luce della verità, ci libera dal nostro egoismo e con la grazia del Cristo, povero e crocifisso, addolcisce le nostre asprezze con la dolcezza e la forza del suo amore.
Verificare ogni giorno questo cammino di santità è certo un compito a cui siano chiamati, ma dobbiamo ritenerlo un dono di grazia elargito dal Signore, dono che non dobbiamo mettere in dubbio di fronte all’esperienza di ogni giorno, in cui i sentimenti sono diversi da quelli che il Signore chiede.
Così non dobbiamo avvilirci né scoraggiarci e, convinti della continuità del suo aiuto, dobbiamo camminare nella via della santità con serenità e costanza.
Nella preghiera iniziale ci rivolgiamo a Padre celeste dicendo: « Infondi in noi, o Padre, la sapienza e la forza del tuo Spirito, perché camminiamo con Cristo sulla via della croce, pronti a far dono della nostra vita per manifestare al mondo la speranza del tuo regno ».
Prima Lettura: 2 RE 4,8-11.14-16.
Eliseo, ritenuto uomo di Dio dalla donna della città di Sunem, veniva da essa ospitato tutte le volte che il profeta passava da quel luogo. L’ospitalità della donna giunse a predisporre nella sua casa, al piano di sopra una cameretta in muratura, con un letto, un tavolo, una sedia e un candeliere, perché vi potesse riposare. Un giorno Eliseo, chiedendo cosa avrebbero potuto fare per quella donna così ospitale al suo servo Giezi, questi gli riferì che, essendo lei e suo marito anziani, non avevano figli. Eliseo, fattala chiamare, le disse che l’anno prossimo avrebbe stretto fra le sue braccia un figlio. Attraverso la figliolanza l’ospitalità di quella donna viene ricambiata, perché Dio, autore della vita vince la sterilità e, lungo la storia della salvezza, molte volte si rende presente con tali eventi. Così questo gesto della donna prelude alla ospitalità che bisogna dare, come dice Gesù, a lui o al fratello più piccolo, poiché sarà data per essa una ricompensa.
Seconda Lettura: Rm 6,3-4.8-11.
San Paolo scrive ai Romani dicendo che attraverso il Battesimo, essendo battezzati nella morte di Cristo e sepolti nella morte di lui, come Cristo è risuscitato dai morti, essi sono chiamati a camminare in una vita nuova. Ancora: se si è morti con Cristo bisogna credere che vivremo con lui, poiché, essendo egli risorto, non muore più. Egli che è morto, una volta per tutte, per il peccato, ora vive per Dio, così essi devono considerarsi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù. Il battesimo più che un gesto esteriore è un segno sacramentale che ci rende partecipi dell’amore di Cristo e della sua risurrezione, preludio e speranza della risurrezione futura. Allontanandoci dal peccato la forza della risurrezione ci fa vivere e operare in maniera nuova. Il peccato ci fa regredire nel cammino di risurrezione che il Battesimo ci ha fatto iniziare e non cresciamo nella comunione con Dio e nella vita divina.
Vangelo: Mt 10, 37-42.
Nel barano del Vangelo di Matteo Gesù ci esorta ad anteporre l’amore per lui all’affetto per il padre, la madre, per il figlio o la figlia, se si vuole essere degni di lui; a prendere la propria croce e seguirlo per essere degni di lui.
Chi poi non avrà tenuto la propria vita per sé ma l’avrà perduta per la sua causa la troverà; chi avrà accolto i suoi discepoli avrà accolto lui e avrà accolto anche colui che l’ha mandato. Chi avrà accolto il profeta o il giusto avrà la ricompensa del profeta o del giusto. Anche per aver dato un bicchiere d’acqua fresca ad uno dei fratelli più piccoli, perché è un discepolo, non si perderà la ricompensa. Gesù esige una amore e una dedizione totale e prioritaria, deve essere amato prima di tutti e di tutto. I legami più intimi non vengono aboliti, ma devono cedere il passo all’amore per Cristo e per Dio. Essi non possono entrare in concorrenza tra loro. La sequela del Cristo, per chi vuole essere suo discepolo, non può evitare di portare la croce dietro a Lui: mistero difficile da capire e accettare. L’accoglienza del profeta, del discepolo che viene nel nome di Gesù, è un accogliere lui. Anche nel più piccolo missionario o predicatore si deve vedere Cristo in persona, come pure in ogni uomo, specie nel povero, ammalato, diseredato deve vedersi la persona di Cristo stesso e servirlo con amore e premura.
Testimoniare la fede con coraggio e riconoscere il Cristo davanti agli uomini.
25 GIUGNO - XII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO.
Nella memoria della Pasqua del Signore celebriamo il suo sacrificio di espiazione in cui Gesù si è offerto per riconciliare l’umanità con il Padre celeste. L’Eucaristia ci rende partecipi di questa riparazione, poiché la nostra vita, segnata dal peccato, ha continuo bisogno di riconciliazione e di riparazione, in quanto molte cose, come la ricerca del successo, la nostra superbia ed esaltazione, i cedimenti davanti alle esigenze del Vangelo, sono realtà che esigono purificazione. Nell’Eucaristia oltre a questa espiazione e alla fedeltà per confessare la nostra fede, troviamo e sono condivise anche la lode innalzata da Gesù che si immola sulla croce, l’adorazione e il ringraziamento al Padre celeste.
Nel giorno del Signore la nostra lode deve sgorgare dal cuore in maniera più intensa e prolungata, alimentata dalla Parola di Dio che renderla presente nella nostra storia, come con i due discepoli di Emmaus.
Nella preghiera iniziale della Colletta preghiamo dicendo: « O Dio che affidi alla nostra debolezza l’annunzio profetico della tua parola, sostienici con la forza del tuo Spirito, perché non ci vergogniamo mai della nostra fede, ma confessiamo con tutta franchezza il tuo nome davanti agli uomini, per essere riconosciuti da te nel giorno della tua venuta ».
Prima Lettura: Ger 20,10-13.
L’annunzio che il profeta fa nel nome di Dio non è facilmente accettato dal popolo e da coloro che lo ostacolano. Anche i suoi amici spiano la sua caduta e pensano che si lascerà trarre in inganno, così da potere prevalere su di lui. Ma il profeta non è sfiduciato perché il Signore, come un prode valoroso è al suo fianco, per cui i suoi persecutori non potranno prevalere e saranno confusi perché non riusciranno, anzi ne avranno una vergogna eterna. Chiede al Signore, che prova il giusto e ne scruta il cuore e la mente, di potere vedere la vendetta su di essi, essendosi affidato a lui. Eleva quindi inni di lode a Dio per averlo liberato dalle mani dei suoi malfattori.
Seconda Lettura: Rm 5,12-15.
San Paolo ai Romani scrive dicendo che Adamo per il suo peccato ha portato al peccato e alla morte tutti gli uomini vissuti prima che Dio avesse dato la legge a Mosè. E se anche non si può parlare di peccato non essendoci ancora la legge, la morte regnò ugualmente da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato con una trasgressione simile a quella di Adamo. Questì sarebbe la figura di Colui che deve venire, cioè Gesù Cristo, per il quale, con la sua obbedienza e il suo sacrificio, la grazia di Dio e il dono concessi si sarebbero riversati in abbondanza su tutti gli uomini.
Vangelo: Mt 10,26-33.
Gesù esorta i suoi discepoli ad annunziare quello che egli dice nelle tenebre nella luce e quello che ascoltano all’orecchio predicarlo a tutti. E non devono aver paura se anche possono essere uccisi nel corpo, perché non possono uccidere l’anima. Ma dice di temere coloro che possono far perire l’anima e il corpo nella Geenna con una perdizione eterna.
Esorta i suoi discepoli ad aver fiducia nella provvidenza del Padre celeste, perché, né i passeri possono cadere senza che Dio Padre lo voglia, né alcun capello cadere dalla loro testa, essendo tutti contati, poiché essi valgono più di molti passeri.
Chiede, infine, che lo testimonino e lo riconoscano davanti agli uomini perché egli li riconoscerà davanti al Padre celeste, e sarà rinnegato colui che lo rinnegherà davanti agli uomini.
Solennità del Corpo e Sangue del Signore.
18 GIUGNO – SOLENNITA’ DEL CORPO E SANGUE DI GESU’
Nella sua fedeltà il Signore, dopo aver liberato il popolo d’ Israele dall'Egitto, averlo condotto lungo il deserto, accudito, nutrito, non è venuto meno alla volontà salvifica a favore dell’uomo, pienamente manifestata in Gesù Cristo che, con il suo Corpo e il suo Sangue, nutre i credenti, realizzando un tangibile legame d’amore tra questi e il Padre.
La Chiesa del Signore è una comunità con dimensione comunitaria. In essa si vive e si celebra la fede: è soprattutto l’ Eucaristia, « memoriale della Pasqua » del Signore Gesù, morto e risorto, che realizza la dimensione comunitaria dei discepoli del Signore. Il Memoriale che essi celebrano, per espresso comando di Gesù, non vuol dire un semplice ricordo ma una presenza reale del Corpo e del Sangue del Signore, realizzata dalla potenza dello Spirito Santo. Nell’Eucaristia noi offriamo il sacrificio della nuova alleanza, in cui è ripresentata l’immolazione della croce, dove Gesù, Agnello senza macchia, s’è offerto. Ma l’altare è anche la mensa della cena celebrata da Gesù, in cui attingiamo il cibo per il « viaggio della nostra vita », in attesa di partecipare al convito eterno del cielo, perché il Corpo che mangiamo e il Sangue che beviamo sono pegno della gloria futura. .
Riconoscendoci fratelli, riuniti in « assemblea festosa » rendiamo grazie a Dio, che nel sangue di Cristo ci ha costituiti come suo popolo, che celebra la medesima fede ed è unito, in unità e carità, nell’ unico pane e nell’ unico calice. Nell’ Eucaristia riceviamo lo Spirito che scaturisce dal Corpo di Cristo e la purificazione di ogni colpa. La comunità non può costituirsi in termini e funzioni psicologici, o ridursi come gruppo aggregato con dimensione solo affettiva o emotiva, sì da colmare situazioni di compensazione alle proprie fragilità: la comunità rischierebbe di non far progredire i vari membri nella maturità della fede. Né può percepirsi la comunità in termini sociologici, perché il Concilio, definendo la Chiesa, come « popolo di Dio », ha voluto definirla in maniera teologica non sociologica, cioè costituita con votazioni o referendum: esso è l’insieme di coloro che credono, celebrano e praticano la fede cristiana, pur con le loro fragilità.
Un ultimo rischio, in cui possono cadere i cristiani, è quello di considerare la Comunità come aggregazione per eventi o iniziative che vengono organizzati, in cui può registrarsi scarsa e superficiale intensità di comunione spirituale.
Si può parlare di comunità quando vige la « comunione », tra i membri, come relazione spirituale e di amore fraterno, per cui sia i presenti come anche coloro che per motivi svariati non possono essere presenti, si sentono partecipi. La comunione ha il suo fondamento nella relazione che ognuno ha con Cristo, e solo questo fa la comunità cristiana. Vi sono infatti tante forme di comunità, ma solo l’unione con Cristo e tra i vari membri è la prerogativa che realizza una « comunità cristiana ».
L’Eucaristia che rimane dopo la celebrazione della Messa presenza reale di Cristo, che avvera la promessa di Gesù di non lasciare più la sua Chiesa. Al Cristo del tabernacolo va la nostra adorazione e il nostro culto.
Prima Lettura: Dt 8,2-3. 14-16.
Nell’ arduo cammino del deserto, al popolo, umiliato e provato dalla fame, Dio non ha lasciato mancare il nutrimento, poiché lo ha sostenuto con un cibo singolare, la manna, segno della provvidenza e dell’ amore di Dio.
Anche l’acqua, sgorgata dalla roccia arida e dura, fu un segno straordinario dell’intervento potente di Dio, che non abbandona mai nessun uomo, fosse il più umile e piccolo. In particolare Dio si è reso vicino alla sua Chiesa, nuovo popolo costituito dal sacrificio del suo Figlio, che si è dato come cibo e bevanda di vita eterna.
Seconda Lettura: 1 Cor 10,16-17.
Quando prendiamo parte al calice, dice san Paolo, noi entriamo in comunione con il Sangue di Cristo; e spezzando e mangiando il pane eucaristico ci nutriamo del Corpo reale di Gesù. Pane e vino non sono puri simboli, che possono significare Gesù: « L’Eucaristia è il Signore, che dona la sua vita per noi; in essa noi lo riceviamo veramente ». Come conseguenza, dice l’apostolo Paolo, ne deriva che se unico è il pane che spezziamo e mangiamo, cioè l’unico Corpo di Cristo, allora noi siamo intimamente uniti, gli uni agli altri.
Pur essendo molti: ognuno con la propria personalità, fisionomia esteriore e interiore, con storie diverse e diverso temperamento, formiamo tuttavia un solo corpo. L’Eucaristia, ricevuta degnamente ci rende intimamente uniti. Per questo ci dobbiamo amare. E’ il frutto e l’impegno dell’Eucaristia.
Vangelo: Gv 6,51-58.
La comunità del Signore si caratterizza per la comunione che i credenti in lui pongono attorno alla sua presenza, reale e non simbolica, nell’Eucaristia. Le sue parole, come leggiamo nel Vangelo di questa solennità: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui », ci dicono che l’assimilazione della carne e del sangue di Cristo, rendono presente Gesù nel credente e viceversa. Certo le parole “mangiare ” e “ bere ” non sono da intendersi in senso naturalistico, ma vanno intese in senso sacramentale, in quanto mangiare il pane e bere il vino, che per la potenza dello Spirito di Dio, sono trasformati nel Corpo e Sangue di Cristo, rendono presente in noi il Cristo-Dio, e sono “ segni efficaci ”, che compiono ciò che dicono. La partecipazione a questi segni sacramentali è partecipazione da parte nostra agli effetti della passione e al dono della pienezza della vita che Gesù ci comunica.
Adesso il pane che ci nutre, come credenti e come figli di Dio, è la carne, quindi la persona, di Cristo, il quale si offre per noi. Entriamo infatti in profonda comunione con il Corpo e il Sangue di Gesù. Solo così abbiamo la vita, quella vera, che non si logora e che non è destinata ad esaurirsi e a spegnersi. L’Eucaristia ci dona la vita stessa del Padre e del Figlio, Gesù. Grazie all’ Eucaristia e alla vita che in essa riceviamo, a differenza degli antichi ebrei, saremo sottratti all’ esperienza della morte, perché, sostenuti da questo nutrimento lungo il cammino terreno, possiamo giungere alla “ terra promessa ” del Regno celeste. Nell’ Eucaristia già riceviamo il germe della risurrezione e conformazione al Signore che ha vinto la morte. Concludendo, solo dalla comunione con Cristo viene la vera comunione nella comunità che le permette di essere, nell’ oggi, profezia e annunzio del Regno futuro. Tutto il resto può rendere visibile la comunione nella comunità, ma se manca il centro, cioè Cristo, la Chiesa fallisce lo scopo per cui il Signore l’ha posto nel mondo.
SOLENNITA' DELLA SANTISSIMA TRINITA'
11GIUGNO - SOLENNITA’ DELLA SANTISSIMA TRINITA’
Quello della SS. Trinità è il primo mistero principale della fede cristiana, rivelatoci da Dio. Noi professiamo la fede in un Dio, uno e unico, in Tre Persone, uguali e distinte, ma non separate. La Teologia cristiana, accogliendo la rivelazione che Dio ha fatto, ha cercato lungo i secoli di indagarne il mistero, usando le categorie epistemologiche-conoscitive di ogni epoca, pur sapendo, ( come scrive san Agostino nel libro "De Trinitate", il quale immagina di vedere, sulla spiaggia del mare di Tegaste, un bambino che con un cucchiaio tenta di svuotare tutto il mare trasportandone l’acqua in una buca), che un mistero così grande non può essere pienamente compreso da una mente umana finita e limitata, quale è quella dell’uomo, nel senso di una limitatezza come coscienza delle proprie possibilità e impossibilità.
Alla Santissima Trinità – al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo – rivolgiamo sempre la nostra preghiera di adorazione, di lode, di onore e il nostro rendimento di grazie. A questo mistero, che non deve essere creduto come verità astratta e lontana, i cristiani vi dedichiamo una festa tutta particolare, proprio perché questo mistero si è fatto vicino a noi e conclude il periodo dell’anno liturgico del mistero di sal- vezza che viviamo nella Liturgia dall’Avvento alla Pentecoste. E’ un mistero di relazione, di amore, co- munione e intimità fra le tre Persone. La SS. Trinità è un Dio che costantemente si dona all’ uomo rendendolo partecipe di questa relazione, fino al punto di comunicarsi a lui. Il mistero di Dio ci è stato rivelato pienamente, quando ci è stato inviato come nostro redentore Gesù, il Figlio stesso di Dio, che ci ha riconciliati con la sua morte e risurrezione e quando ci è stato inviato « lo Spirito Santo d’amore », che ci ha santificato. Così ci è stato rivelato « il mistero della vita di Dio », che è Trinità Santissima, anche se la sua comprensione ci sfugge. Tuttavia l’inabitazione in noi delle tre Persone divine, è una esperienza, anche se ancora pur velata, verso cui siamo incamminati « nella pazienza e nella speran-za», e tesi verso la « piena conoscenza » di Dio « amore e vita ».
Nella Colletta dell’Eucaristia preghiamo dicendo: « Padre, fedele e misericordioso, che ci hai rivelato il mistero della tua vita donandoci il Figlio unigenito e lo Spirito d’amore, sostieni la nostra fede e ispiraci sentimenti di pace e di speranza, perché riuniti nella comunione della tua Chiesa benediciamo il tuo nome santo e glorioso ».
Prima Lettura: Es 34,4-6.8-9
Il nostro Dio è un Dio per noi, per la nostra salvezza, Dio di misericordia, « ricco di amore ». Nella rivelazione che Dio fa di sé per la seconda volta a Mosè ridona le tavole della Legge, poiché una prima volta il popolo aveva deviato dalla fedeltà agli impegni dell’alleanza. Infatti, essendosi dato all’ idolatria e prostratosi in adorazione davanti al vitello d’oro, fatto da Aronne, aveva attribuito ad esso l’opera della liberazione dall’ Egitto. Nonostante questa infedeltà, Dio, per intercessione di Mosè, perdona al suo popolo perché è « il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ ira e ricco di amore e di fedeltà ». Ma Mosè sente Dio vicino e pieno di grazia, perché è un Dio che cammina in mezzo al suo popolo, che perdona le sue colpe,« anche se è di dura cervice ». Mosè davanti a Dio riconosce il peccato di tutto il popolo e chiede che lo scelga e lo tratti come suo possesso. La presenza di Dio sarà pienamente realizzata quando a camminare in mezzo a noi sarà lo stesso Figlio di Dio e, dal Padre e dal Figlio, lo Spirito Santo sarà inviato come dono. Allora potremo comprendere maggiormente la vicinanza di Dio: Trinità Santissima, rivelata e comunicata agli uomini.
Seconda Lettura: 2 Cor 13,11-13
Nel saluto che Paolo solitamente rivolge ai cristiani nelle sue Lettere sono proclamate le Tre Persone divine della Santissima Trinità. Paolo augura che l’amore di Dio Padre, la grazia del Signore Gesù e la comunione dello Spirito Santo sia con loro. Ma questo saluto non è una astratta enunciazione del mistero trinitario: del Padre è sottolineato l’amore, del Figlio Gesù la grazia che ha meritato per gli uomini e dello Spirito Santo la comunione che crea tra essi. Il mistero della Santissima Trinità ci è stato rivelato dal Figlio, che ci ha redenti mediante la sua morte e resurrezione, e con il dono dello Spirito ce ne ha dato una più profonda conoscenza. Più che riflettere, allora, per capire, siamo chiamati ad accoglierlo e a realizzare un rapporto di amore con la Trinità tutta, dal momento che le Tre Persone divine sono in viva relazione con noi, come ci ha detto Gesù, perché lo Spirito fa dimorare il Padre e il Figlio nel cuore di chi è in grazia.
Vangelo: Gv 3,16-18.
Del dono di Dio all’ uomo ci parla Gesù nel suo colloquio con Nicodemo a cui svela il progetto di salvezza del Padre, che per sua iniziativa d’amore sovrabbondante, generoso e oblativo, manda il suo Figlio, consegnato per la salvezza del mondo. Questo mondo a volte si oppone a Dio, lo contrasta e rifiuta il suo amore, mentre altre volte, riconoscendo l’uomo il proprio stato di prostrazione, lo ricerca e si rivolge a lui. Nell’ insegnamento e nella rivelazione che Gesù fa di Dio il mondo, cioè l’umanità tutta, è oggetto dell’amore di Dio che, avendola creata, la cerca e la attira al suo amore.
Così abbiamo saputo del Padre quando Gesù ha detto a Nicodemo che Dio Padre, per amore degli uomini, ha mandato il suo Figlio Unigenito per la salvezza del mondo e per dare loro, credendo in Dio, la vita eterna.
Il Padre, per sua libera iniziativa, ha affidato la missione della salvezza al Figlio, che venuto tra noi ha assunto e condiviso, perché potessimo avere la vita di Dio in noi. A questa iniziativa di Dio deve corrispondere, da parte nostra, nella fede, l’accoglienza di questo Dono del Padre, nel quale riceviamo la salvezza, se nella fede accogliamo le parole, le opere e i gesti di Gesù. La fede, come affidamento a Dio e al suo progetto di salvezza realizzato in Cristo, è a fondamento della conoscenza del mistero di comunione a cui Dio ci ha chiamati. Il mistero del Padre e del Figlio appare così non come verità difficile ad accogliersi, ma come partecipazione nostra alla vita di Dio, vita divina, meritataci dal Figlio, morto e risorto per noi, ma che ci viene data grazie allo Spirito Santo: infatti noi nasciamo di nuovo, dall’ alto, per virtù dello Spirito e alimentiamo questa vita attraverso i sacramenti che sono realizzati dalla terza Persona della Santissima Trinità.