Dio parla agli uomini con i profeti e soprattutto con il suo Figlio.
5 LUGLIO - XIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Nella orazione di oggi preghiamo dicendo:« O Padre, togli il velo ai nostri occhi e donaci la luce dello Spirito, perché sappiamo riconoscere la tua gloria nell’ umiliazione del tuo Figlio e nella nostra infermità umana sperimentiamo la potenza della sua risurrezione ». Chiediamo al Padre di poter riconoscere in Gesù che si umilia, facendosi obbediente al Padre, la sua gloria e nelle nostre infermità possiamo essere sostenuti dalla speranza e della forza della sua risurrezione. Liberati dall’ oppressione della colpa, per la potenza della croce di Gesù, dobbiamo conformarci a lui crocifisso nella sua umiliazione, sgombrando il nostro cuore da tutto ciò che non ci rende poveri ed esultanti. Liberi dall’attaccamento a noi stessi portiamo, anche in mezzo alle infermità umane, la testimonianza della gioia pasquale della risurrezione.
Prima Lettura: Ez 2,2-5.
Ezechiele è inviato da Dio a parlare agli israeliti che sono una genia di ribelli, perché si sono rivoltati contro il Signore, così come avevano fatto i loro padri fino ad allora. E’ mandato al popolo degli Israeliti divenuti « figli testardi e dal cuore indurito » e dovrà dire loro: « Ascoltino o non ascoltino - dal momento che sono una genia di ribelli -, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro ». E’ ardua la missione che il Signore affida al profeta, perché gli Israeliti sono ribelli e dai cuori induriti e non corrispondono alla fedeltà del Signore. La parola che il profeta annunzia se non viene ascoltata diventa non motivo di risurrezione ma di condanna. Non si rigetta o non si trascura invano la Parola di Dio.
Seconda Lettura: 2 Cor 12,7-10.
Paolo ai Corinzi scrive dicendo che egli, perché non si insuperbisca, ha nella sua carne un inviato di Satana che lo tormenta. Nelle sue sconfitte e umiliazioni egli non si lascia scoraggiare o deprimere. Di fronte alla sua preghiera al Signore perché lo liberi, la risposta di Dio è : « Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza ». Vantandosi poi volentieri delle sue debolezze e compiacendosi in esse, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo, è quando si sente debole che avverte la potenza, la grazia e la forza del Signore. Soffrire per Cristo, allora, anche nelle infermità umane, nelle incapacità e debolezze dell’uomo, lo si può perché Cristo ci assicura la sua grazia. E’ importante affidarsi a Dio con assoluta confidenza, Con lui riusciamo a vincere sempre sul male e a perseverare nel bene.
Vangelo: Mc 6,1-6.
Gesù, nella sinagoga di Nazaret, dopo aver letto la profezia di Isaia sul Messia e averla applicata a sé dicendo: « Oggi questa Scrittura si è realizzata ai vostri orecchi », ha scandalizzato gli uditori. I circostanti, stupiti del suo insegnamento, si chiedono donde gli vengano quelle cose, la sua sapienza e i prodigi attribuiti dal profeta al Messia. Lo conoscono come il figlio di Giuseppe il falegname, di Maria e fratello di Giacomo, Ioses, Giuda e Simone e non possono accettare che Egli le attribuisca a sé. Viene cacciato dalla sinagoga e Gesù amaramente dice loro: « Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua » e non vi compie nessun prodigio, restando anzi meravigliato della loro incredulità, « ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì ».
L’incredulità è un ostacolo per la salvezza perché l’opera del Cristo possa essere efficace nell’uomo. Senza la fede non avviene il miracolo di avvicinarsi a Cristo e accoglierlo. Quella incredulità di allora prefigura la nostra e di quanti non vogliono accogliere Gesù che si presenta nella normalità umana, senza prestigio, gloria o altro di strabiliante. Accettare la sua identità significa credere al di la delle sue apparenze umane. Non possiamo essere noi a porre le condizioni a Dio per il suo disegno di salvezza. Come gli apostoli allora che vedevano l’avvento del Messia come la liberazione politica, sociale e umana nei suoi gesti, anche oggi vorremmo un Cristo diverso e non di « passione e di croce » che scandalizza. Possiamo partecipare della salvezza da lui operata solo se si accetta il modo e lo stile che Dio ha deciso, per riportare l’uomo alla comunione con sé.
Il Signore crea la vita, la guarisce e la salva con la risurrezione.
28 GIUGNO – XIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO.
Il Signore nella liturgia della Domenica continua a portare a compimento l’opera della redenzione e della liberazione degli uomini dalle tenebre del male e del peccato. Donandoci lo Spirito Santo, con la sua luce della sua verità, ci libera dal nostro egoismo e con la grazia del Cristo, povero e crocifisso, addolcisce le nostre asprezze con la dolcezza e la forza del suo amore.
Verificare ogni giorno questo cammino di santità è certo un compito a cui siano chiamati, ma dobbiamo ritenerlo un dono di grazia elargito dal Signore, dono che non dobbiamo mettere in dubbio di fronte all’esperienza di ogni giorno, in cui i sentimenti sono diversi da quelli che il Signore ci chiede.
Così non dobbiamo avvilirci né scoraggiarci e, convinti della continuità del dono della grazia che Dio ci fa, confidare sempre in lui e riprendere il cammino con serenità e costanza.
Nella preghiera iniziale ci rivolgiamo a Padre celeste dicendo:« Padre, che nel mistero del tuo Figlio povero e crocifisso hai voluto arricchirci di ogni bene, fa che non temiamo la povertà e la croce, per portare ai nostri fratelli il lieto annunzio della vita nuova ».
Prima Lettura: Sap 1,13-15; 2,23-24.
Il libro della Sapienza ci insegna che Dio non ha creato la morte e non gode della rovina dei viventi. Egli ha creato l’uomo per l’immortalità facendolo ad immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per l’invidia del diavolo e coloro che gli appartengono fanno esperienza della morte. Gesù è venuto per riscattarci da questa situazione mortale, vincendo il demonio e il male e vincendo anche la morte da lui causata. Gesù risorto è il principio e la primizia della vita definitiva spirituale ed eterna. Vivendo in comunione di grazia con Gesù, abbiamo in germe in noi la vita che non tramonta.
Seconda Lettura: 2 Cor 8, 7.9; 13-15.
San Paolo se da una parte loda i Corinzi perché ricchi nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che Egli ha insegnato loro, dall’altra li esorta e li sprona a vivere nella generosità dell’aiuto da dare alla Chiesa di Gerusalemme che è nel bisogno ed è attanagliata dalla carestia. Porta ad esempio Cristo Gesù che da ricco che era, si è fatto povero per arricchire noi della sua povertà, facendoci dono e partecipi della sua vita divina. Più che mettere in ristrettezza economica i Corinzi, chiede loro di fare uguaglianza, cosicché la loro abbondanza supplisca alla indigenza dei fratelli di Gerusalemme e, un domani, l’abbondanza dei cristiani di Gerusalemme potrà supplire a indigenza dei Corinzi. In questa imitazione dello stile di Gesù, che è venuto per arricchirci della sua divinità e della sua vita divina, i cristiani hanno un modello da imitare e testimoniare nel mondo, realizzando la fraternità tra le chiese e tra i fedeli, come anche la comunione nella fede, senza la quale la loro vita sarebbe destinata alla aridità e sarebbe smentito il principio della redenzione e della salvezza.
Vangelo: Mc 5, 21-43.
Gesù compie un doppio miracolo, come ci racconta il brano evangelico di oggi: guarisce una donna, che da dodici anni è affetta da emorragia e da cui non era guarita pur avendo consultato molti medici e spendendo tutti i suoi averi, anzi aggravandosi, la quale dimostra una grande fede e viene guarita, perché crede che toccando anche solo il mantello di Gesù sarà guarita, come di fatto avviene e la figlia del capo della sinagoga Giairo, che lo invoca per la guarigione della figlia morente. Nella prima guarigione, davanti alle impossibilità umane o a quelle derivanti dalla convinzione che il denaro può tutto, solo per la sua fede quella donna, che riesce con fatica, a causa della folla, a toccare il mantello di Gesù, è esaudita da lui, dal cui corpo si sprigiona una potenza divina guaritrice. Gesù le rivolge parole che la rigenerano anche spiritualmente: « Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male » . Nell’ episodio della bambina, richiamata in vita, Gesù esaudisce il desiderio dei genitori invitandoli ad aver fede nella sua parola, pur tra le difficoltà poste da coloro che ne annunziano la morte sopraggiunta e dalle perplessità e dalla derisione manifestate da coloro che piangono e urlano per la sua morte: « Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme ». Gesù la richiama in vita, dimostrando così che egli sarà Colui che vincerà la morte e divenendo per tutti noi speranza di risurrezione eterna.
La fiducia nella onnipotenza divina.
21 GIUGNO – XII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO.
Nella celebrazione della memoria della Pasqua del Signore celebriamo il suo sacrificio di espiazione in cui Gesù si è offerto al Padre per riconciliare l’umanità con il Padre celeste. L’Eucaristia ci rende partecipi di questa riparazione, poiché la nostra vita segnata dal peccato ha continuo bisogno di riconciliazione e di riparazione, in quanto molte cose, come la ricerca del successo, la nostra superbia ed esaltazione, i cedimenti davanti alle esigenze del Vangelo, sono realtà che esigono purificazione.
Nell’Eucaristia oltre a questa espiazione e alla fedeltà per confessare la nostra fede, troviamo e sono condivise anche la lode innalzata da Gesù che si immola sulla croce, l’adorazione e il ringraziamento al Padre celeste.
Nel giorno del Signore la nostra lode deve sgorgare dal cuore in maniera più intensa e prolungata, alimentata dalla Parola di Dio che ci dà testimonianza della salvezza che Gesù ha operato e continua a renderla presente nella nostra storia, come con i due discepoli di Emmaus.
Nella preghiera iniziale diciamo a Dio: « Rendi saldo, o Signore, la fede del popolo cristiano, perché non ci esaltiamo nel successo, non ci abbattiamo nelle tempeste, ma in ogni evento riconosciamo che tu sei presente e ci accompagni nel cammino della storia ».
Prima Lettura: Gb 38,1.8-11.
Il Signore a Giobbe, che è afflitto dal suo male, riafferma la sua presenza nel mondo e la sua vicinanza a lui, fin da quando con la sua potenza chiudeva tra due porte il mare, quando lo vestiva di nubi e lo fasciava di una nuvola oscura, quando gli ha fissato un limite mettendogli un chiavistello e dicendo : « Fin qui giungerai e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde ». Così Dio dice a Giobbe che nella opera creatrice Egli precede sempre l’opera dell’uomo e la sua stessa esistenza, poiché come creatura è limitata nella sua capacità di conoscere e dominare la natura. E il dolore che inquieta Giobbe, e tutto il mondo è certamente un mistero per lui. Ma Dio nella sua Provvidenza non abbandona l’uomo, il quale si deve abbandonare totalmente in lui come Gesù, Signore dell’universo, da cui i nostri misteri e le nostre oscurità vengono illuminati e con la sua croce si scioglie l’enigma del dolore.
Seconda Lettura: 2 Cor 5, 14-17.
San Paolo dice ai Corinzi che l’amore di Cristo ci possiede, poiché egli è morto per tutti e noi non viviamo più per noi stessi ma per « colui che è morto ed è risorto per loro ». Così non guardiamo più a Cristo alla maniera umana, ma con la fede. Essendo ormai in Cristo, siano nuove creature, le cose vecchie e la nostra vita di peccato sono passate e ne sono nate di nuove. Siamo ancorati a questa certezza di fede che, cioè, in Cristo siamo completamente creature nuove? Per cui la nostra adesione non deve essere labile e insicura per non essere incoerenti. Con il Battesimo siamo stati rinnovati e la nostra relazione con il peccato, con il demonio è stata eliminata nella sua forma originale, anche se permane ancora in noi l’inclinazione a ricadere nel peccato. Ma tutto però deve essere vissuto con una mentalità nuova e con nuovo modo di giudicare le cose e gli eventi della vita. La novità della vita si esprime, come dice Gesù, nell’amore verso gli altri vedendo in loro lui stesso. Quest’amore porta, alla maniera di Gesù, «che è morto per tutti », a dare la vita per gli altri. Le proprie scelte e i propri atteggiamenti, allora, dice San Paolo, devono ispirarsi al « non vivere più per se stessi ». Il cristiano sa che vivere per Cristo significa accogliere tutti gli uomini come egli ci ha accolti nella sua carità. La considerazione del prossimo è cambiata nella prospettiva di Gesù, perché l’amore al prossimo non dobbiamo portarlo tenendo conto del giudizio e delle simpatie puramente naturali, ma dal fatto che tutti siamo stati amati dal Signore nella sua donazione sulla croce.
Vangelo: Mc 4,35-41.
Oggi Gesù, nella traversata del lago, sconvolto dalla tempesta, è sulla barca insieme ai discepoli. Egli dorme e i discepoli, sconvolti dalla paura e agitati, gli dicono terrorizzati: « Maestro, non t’importa che siamo perduti? ».E Gesù destatosi « minaccia il vento e dice al mare: “Taci, calmati!”». Ritornata la bo-naccia dice loro: « Perché avete paura? Non avete ancora fede? ». I discepoli timorosi si chiedono:« Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono? ». Il mare in burrasca è il simbolo del mondo che è agitato e in disordine per i mali che lo affliggono. Gesù, Creatore come il Padre, impone con la sua potenza alle forze e agli elementi della natura i suoi comandi. La sua Signoria sull’universo e sulla storia è così ristabilita e riconosciuta, perché egli è colui che dà senso e valore, significato e ordine alle realtà. Attraverso la fede bisogna affidarsi a Cristo senza timore anche in mezzo alle vicende difficili e tempestose della vita: la barca della nostra esistenza può essere a volte agitata e la paura può prendere il sopravvento e giungere allo scoraggiamento e quasi possiamo sentirci sopraffatti dalle situazioni. Le nostre travagliate situazioni, le nostre tempeste si placano se ci affidiamo a Cristo. La certezza che il Signore dell’universo è con noi e la confidenza in lui, che anche a noi dice: « Perché avete paura? », devono farci riprendere coraggio e continuare la traversata della nostra vita, sicuri che nessuna forza di male ci può inghiottire.
Ultimo aggiornamento (Sabato 20 Giugno 2015 20:48)
Il Regno di Dio cresce nel cuore degli uomini per potenza propria.
14 GIUGNO – XI DOMENICA del TEMPO ORDINARIO.
Nell’Eucaristia noi rendiamo grazia a Dio per i suoi benefici e con l’offerta del pane e del vino, che saranno trasformati dalla Spirito Santo nel Corpo e Sangue di Cristo, rendiamo grazie a lui. Questi doni trasformati diventano Sacramento che ci unisce a Cristo e viene edificata la Chiesa nell’unità e nella pace. L’unione a Cristo diventa più piena quando come lui viviamo nella osservanza della volontà di Dio, quando rendiamo la nostra vita, non solo nelle intenzioni ma anche le scelte quotidiane, in coerenza con la fede.
Nella preghiera iniziale dell’Eucaristia di oggi chiediamo al Padre celeste: « O Padre, che a piene mani semini nel nostro cuore il germe della verità e della grazia, fa’ che lo accogliamo con umile fiducia e lo coltiviamo con pazienza evangelica ben sapendo che c’è più amore e più giustizia ogni volta che la tua parola fruttifica nella nostra vita ». I cristiani, come popolo profetico e sacerdotale, devono farsi annunciatori e testimoni del Vangelo e diffondere nel mondo la Parola che riconcilia con Dio e tra noi e crea la pace.
Prima Lettura: Ez 17,22-24.
Ezechiele paragona Israele ad un cedro, da cui Dio strapperà un ramoscello e lo pianterà sopra « un monte alto ed imponente … che metterà rami e farà frutti, diventerà un cedro magnifico e sotto i suoi rami gli uccelli dimoreranno e riposeranno », mentre umilierà l’albero alto e farà seccare l’albero verde e germogliare il secco. Dio esalta gli umili e abbassa i superbi, canta Maria nel Magnificat.
Ezechiele si riferisce alla Casa di Davide che verrà restaurata, ma non come potenza umana, ma come Colei da cui nascerà Gesù, il Cristo, Figlio di Davide. Non è l'orgoglio o la nostra forza che salva, ma la grazia di Dio. Quello che l’uomo disprezza, per Dio è colui che compirà le meraviglie di Dio. Quello che ’uomo considera potenza è da Dio considerato impotenza, nullità. Allora, oltre all’ umiltà, è la fiducia in Dio quella che il credente deve avere: nessuna potenza o resistenza umana potrà opporsi alla realizzazione del piano salvifico del Signore.
Seconda Lettura: 2 Cor 5,6-10.
San Paolo, esortando i Corinzi e noi a riporre la nostra fiducia nel Signore finché viviamo in questo esilio terreno lontani da lui, ci dice che su questa terra dobbiamo camminare nella fede e non nella visione delle realtà celesti che siamo chiamati a conseguire. Per cui « sia abitando nel corpo sia andando in esilio dal corpo, dobbiamo sforzarci di essere a lui graditi », per abitare nel Signore, davanti al cui tribunale dobbiamo comparire « per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male ». Per quanto sulla terra ognuno si sforzi di star bene non mancano le tribolazioni, le ansie, le avversità della vita. In tale stato il cristiano è chiamato a credere che la vera patria a cui deve tendere è l’essere in Dio, il quale non chiede di alienarsi da questa terra, ma di impegnarsi quaggiù secondo la sua volontà e avere i nostri sguardi rivolti alle realtà celesti: siamo in esilio lontani dal Signore. Nella Eucaristia, sacramento della presenza del Signore, egli è vicino a noi, ma ancora questa presenza non è quella pienamente beatificante e gloriosa del cielo. Se camminiamo nella fede, ci avviciniamo a lui, per poi contemplarlo nella gioia eterna. Dobbiamo nutrire questo desiderio e questa speranza di raggiungerlo. Nell’ attesa non possiamo vivere nella pigrizia o peggio perseguendo una vita di peccato. Non dobbiamo dimenticare che prima della visione dobbiamo affrontare il giudizio del suo tribunale, in cui sarà valutato il bene o il male compiuto finché abbiamo vissuto su questa terra. Deponiamo allora ogni illusione: la ricompensa o il castigo dipenderanno dalla verità delle nostre quotidiane scelte. Siamo invitati ad essere più pensosi che preoccupati: sappiamo infatti già in anticipo su cosa saremo giudicati.
Vangelo: Mc 4,26-34.
Gesù parla del Regno di Dio e lo paragona al seme che il contadino sparge nel campo. Sia che il contadino dorma o vegli, il seme si sviluppa nelle varie fasi. Così è per il Regno di Dio, perché a dargli incremento è la potenza del Signore. Anche il seme di senape, che è il piccolo di tutti i semi, quando cresce permette agli uccelli di riposarsi alla sua ombra o farvi il loro nido. Gesù con la sua presenza rende presente il regno di Dio ed è la sua potenza a farlo crescere nel cuore dell’uomo, non siamo noi a sostenerlo o ad alimentarlo. Le vie che il Signore segue per farlo crescere non ci sono perfettamente note, sono avvolte nel silenzio e nel mistero. Il Regno cresce con il crescere della grazia e dell’amore di Dio, della sua regalità nel cuore dell’uomo, al di là delle apparenze e dei rumori del mondo. La legge dell’umiltà e della pochezza sono alla base del suo sviluppo, non tanto nelle capacità umane. Così siamo invitati a non affidarci ad appoggi terreni come se fossero quelli che contano. Tutto ciò non toglie che noi dobbiamo essere operosi, anche silenziosamente come altrettanto avviene con il lavorio della grazia. Non è quello che si impone di più o è gradito di più che conta. Il mondo della grazia è in atto, ma non ce ne accorgiamo: l’ ultimo giudizio sarà una sorpresa, perché nel regno di Dio vi si trovano anche tanti che non ci aspetteremmo di trovarvi.
Solennita del Corpo e Sangue di Gesù.
7 Giugno – Solennità del Corpo e Sangue di Gesù.
Nella sua fedeltà il Signore, dopo aver liberato il popolo d’ Israele dall'E- gitto, averlo condotto lungo il deserto, accudito, nutrito, non è venuto meno alla volontà salvifica a favore dell’uomo, pienamente manifestata in Gesù Cristo che, con il suo Corpo e il suo Sangue, nutre i credenti, realizzando un tangibile legame d’amore tra questi e il Padre.
La Chiesa del Signore, come comunità, non può dimenticare la sua dimensione comunitaria, in cui la fede è vissuta e celebrata, specie nella Eucaristia, che è il « memoriale della Pasqua » del Signore Gesù, morto e risorto. Tale memoriale non è un semplice ricordo ma una presenza reale del Corpo e del Sangue del Signore, resa possibile dall’azione dello Spirito Santo che viene invocato. Nella celebrazione dell’Eucaristia noi offriamo il sacrificio della nuova alleanza, viene ripresentato il sacrificio della croce, dove Gesù, Agnello senza macchia, s’è offerto. Nell’altare che è anche la mensa della sua cena noi vi attingiamo il cibo che ci sostiene lungo il « viaggio dellja nostra vita », in attesa di essere partecipi del convito eterno del regno celeste.
Attorno all’altare, uniti in « assemblea festosa » a rendere grazie a Dio, ci riconosciamo fratelli, perché il Padre celeste, nel sangue di Cristo, ci ha rigenerati come fratelli e ci ha costituiti come suo popolo, legato nella medesima fede e dall’ identica unità e carità, rappresentate nell’ unico pane e nell’ unico calice. Noi riceviamo nell’Eucaristia lo Spirito che scaturisce dal Corpo di Cristo e veniamo purificati da ogni colpa.
Tutto questo deve farci fugare i rischi di considerare la comunità in termini psicologici, o ridurla come gruppo aggregato con dimensione solo affettiva o emotiva, per colmare situazioni compensatorie nelle proprie fragilità: una tale comunità rischierebbe di produrre un gruppo di immaturi che cercano un ovattamento alla vita. Oppure percepire la comunità in termini sociologici, perché l’affermazione conciliare sulla Chiesa, come « popolo di Dio », è da intendersi in maniera teologica non sociologica, costituita con votazioni o referendum: esso è l’insieme di coloro che credono, celebrano e praticano la fede cristiana, pur con le loro fragilità.
Infine bisogna evitare un ultimo rischio che è quello di considerare la Comunità come aggregazione per eventi o iniziative di tipo organizzativo, con poco dispendio di energie e con scarsa intensità di comunione spirituale.
Non si può parlare di comunità senza parlare di « comunione », come relazione spirituale e di amore fraterno, che lega sia i presenti come anche coloro che per motivi svariati non possono essere presenti. La comunione trova il suo fondamento nella relazione che ognuno ha con Cristo, e solo questo fa la comunità cristiana. Vi sono infatti tante forme di comunità, ma solo la prerogativa testé esposta realizza una « comunità cristiana ».
L’Eucaristia che dovesse rimanere dopo la celebrazione della Messa è presenza reale di Cristo, che realizza la promessa di Gesù di non lasciare più la sua Chiesa. Al Cristo che è presente nel tabernacolo va quindi la nostra adorazione e il nostro culto.
Nella preghiera iniziale di questa Eucaristia ci rivolgiamo al Signore dicendo: « Signore, Dio vivente, guarda il tuo popolo radunato attorno a questo altare, per offrirti il sacrificio della nuova Alleanza: purifica i nostri cuori, perché alla cena dell’Agnello possiamo pregustare la Pasqua eterna nella Gerusalemme del cielo ».
Prima Lettura: Es 24,3-8.
Dopo che Mosè riferì le parole del Signore al popolo e gli Israeliti, tutti uniti in una sola voce, si impegnarono dicendo: «Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo », venne eretto un altare con dodici stele e vennero offerti sacrifici di comunione per il Signore. Mosè, allora, lesse il libro dell’alleanza e il popolo rinnovò l’impegno di fedeltà ad eseguire ciò che il Signore chiedeva. Con il sangue degli animali sacrificati fu asperso il popolo con queste parole: « Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole! ». Con questo gesto di aspersione viene solennemente sancita l’alleanza tra Dio e il suo popolo. Anche Gesù dirà sul vino, che sarà trasformato dalla potenza dello Spirito, « questo è il sangue dell’alleanza » dandolo da bere durante l’ultima Cena. Gesù infatti offrirà la sua vita per la remissione dei peccati e pone la « nuova alleanza » come alleanza eterna, impegnando noi a vivere, a nostra volta, nell’amore e nella fedeltà.
Seconda Lettura: Eb 9,11-15.
- La Lettera agli Ebrei che oggi la Liturgia ci fa ascoltare ci presenta Cristo come Sacerdote dei beni futuri, perché egli, mediante il suo sacrificio e in virtù dello spargimento del suo sangue e non più per quello di animali, per ottenerci una redenzione eterna, è entrato nel santuario del cielo attraversando una tenda più grande e più perfetta, che non appartiene a questa creazione. Il sangue di Cristo, sparso da lui che è senza macchia, offerto una volta per tutte, purifica e santifica la nostra coscienza dalle opere di morte, dal peccato, perché serviamo al Dio vivente: la redenzione di Cristo, operata sulla croce, è eterna, valida per tutti i tempi, e non ha bisogno di essere ripetuta. Così Gesù è « mediatore di una nuova alleanza, perché, con la sua morte intervenuta in riscatto delle trasgressioni commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che era stata promessa ».
Vangelo: Mc 14,12-16.22-26.
Alla vigilia della sua Passione, Gesù manda due discepoli a preparare la cena della Pasqua. In questo contesto egli opera una trasformazione: al posto dell’agnello che gli ebrei consumavano in ricordo della Pasqua dell’Esodo, Gesù offre il suo Corpo, che immolerà sulla croce. Così, come il sangue dell’agnello, posto sugli stipiti delle porte, liberò i figli degli ebrei dalla morte, ora Cristo ci libera dai peccati e ci custodisce nel suo amore.
L’Eucaristia che celebriamo è la nostra Pasqua, mentre attendiamo di celebrare quella eterna nel cielo. L’Eucaristia è l’anticipo, qui in terra, del banchetto eterno del regno celeste; non è una illusione futura, ma una verità che ci fa sperare di raggiungere la realtà di Dio, verso la quale siamo incamminati. Nella Comunità della Chiesa, in ogni celebrazione dell’Eucaristia, i gesti e le parole di Gesù ripetuti dal ministro, rendono presente per noi ciò che Gesù fece allora: così mangiamo il suo Corpo e beviamo il suo Sangue. Ci cibiamo di tutto il Cristo: del suo Corpo, Sangue, Anima e Divinità.
Ultimo aggiornamento (Sabato 06 Giugno 2015 22:11)