14  AGOSTO – XX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Nell’incontro che viviamo la Domenica nell’Eucaristia noi incontriamo Dio personalmente, poiché il Figlio di Dio si rende presente con il suo Corpo e il suo Sangue. Noi offriamo a Dio il pane e il vino, che sono certo doni divini anche se sono frutto della terra e del nostro lavoro, ma in cambio riceviamo Dio stesso, realmente presente in Corpo, Sangue, Anima e Divinità. E’ un misterioso incontro tra la nostra povertà  e la grandezza di Dio che ci ha fatti, al di là della nostra esistenza creaturale, suoi figli, « amici e commensali ». E’ un giorno da vivere nella gioiosa assemblea dei figli di Dio. La Chiesa « canta nel tempo la beata speranza della risurrezione finale » e proclama « la certezza di partecipare un giorno al festoso banchetto del regno ». La gioia deve diventare continua testimonianza, con parole e opere, di ciò che il Signore ha operato per gli uomini.

Nella Colletta iniziale preghiamo dicendo:« O Dio, che nella croce del tuo Figlio, riveli i segreti dei cuori, donaci occhi puri, perché, tenendo lo sguardo fisso su Gesù, corriamo con perseveranza incontro a lui, nostra salvezza ».

Ger 38,4-6.8.10.

Il re Sedecia, davanti alla richiesta che i capi del popolo gli fanno di mettere a morte Geremia,  il quale scoraggiando i guerrieri e il popolo non cerca, a loro parere, il benessere del popolo ma il male,  risponde: « Ecco, egli è nelle vostre mani; il re infatti non ha poteri contro di voi ». Allora i capi presero Geremia e lo calarono nella cisterna di Malchia, dove non c’era acqua ma fango. Ma Ebed-Mèlec dice al re, intercedendo per il profeta, che quegli uomini hanno agito male facendo ciò che hanno fatto a Geremia, perché questi morrà di fame non essendoci più pane nella città. Sedecìa, allora, diede l’ordine all’etiope Ebed-Melèc di prendere tre uomini e di tirare il profeta dalla cisterna, prima che possa morire.

Per il messaggio che il profeta dà agli abitanti di Gerusalemme, nel nome di Dio, egli è perseguitato e condannato a morte: la parola di Dio del profeta, che richiama il popolo a fidarsi del Signore e non ai propri calcoli politici, non è gradita ai capi, che quindi istigano il re a mettere a morte il profeta. Non accolgono l’invito del Signore alla conversione e credono, vanamente, che Gerusalemme non sarà distrutta e l’esilio è scongiurato. Il profeta che sopporta la persecuzione, perché non accetto al popolo, è simbolo di Cristo, il giusto che viene condannato perché annunzia la verità e la sua fedeltà a Dio, suo Padre. Il profeta che viene tirato fuori dalla cisterna, prefigura ancora Cristo, che dopo la sua passione, morte e sepoltura, viene fatto risorgere glorioso, per la potenza del Padre. Fidarsi, allora, di Dio e seguirlo significa non essere destinato alla perdizione.

Eb 12,1-4.

L’autore della Lettera agli Ebrei esorta i cristiani perché, confortati dalla moltitudine dei testimoni della fede, deposto ciò che appesantisce la vita spirituale e il peccato, corrano, con perseveranza, nella vita di sequela del Cristo, « tenendo fisso lo sguardo  su Gesù, Colui che dà origine alla fede e la porta a compimento ». Gesù, infatti, davanti alla gioia che gli era posta dinnanzi, si è sottoposto alla croce e ha disprezzato l’ignominia da essa derivante e, ora, siede alla destra  del trono di Dio.  L’autore esorta, ancora, a pensare a Colui che  ha sopportato contro di sé l’ostilità dei peccatori, affinché non si stanchino, perdendosi d’animo, perché non hanno resistito fino al sangue nella lotta contro il peccato.

Gesù, Colui che dà origine alla fede e la porta a compimento, è così il modello di coloro che si consegnano a Dio totalmente. Egli si abbandona al Padre, affrontando la morte di croce, per adempiere, non per costrizione ma liberamente, la  sua volontà. E il Padre per questa sua obbedienza filiale lo glorifica e lo costituisce Signore, al di sopra degli angeli e di ogni potestà. Con il suo esempio il Signore ci sostiene e ci stimola a perseverare nel cammino quotidiano anche se intriso di sofferenze, a non  stancarci e a non cedere: se saremo stati conformi a lui nella morte, lo saremo nella sua risurrezione, ci dice San Paolo. Il disprezzo dell’ignominia della croce, l’accoglienza delle sofferenze, accettate nella pazienza dei figli di Dio, come Gesù, ci dà la forza di resistere.

Vangelo: Lc 12,49-53.

Gesù, nella pagine del Vangelo di oggi, ci dice che egli è venuto a « gettare un fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! ». E’ inoltre angosciato finché non si compia il battesimo nel quale sarà presto battezzato, cioè il suo sacrificio sulla croce, con lo spargimento del suo sangue, per la salvezza degli uomini. Egli, ancora, afferma  che non è venuto a portare la pace sulla terra, ma la divisione, perché, davanti a lui, bisogna fare una scelta di vita che porta a distaccarsi da chi non vuole seguirlo: ci si dividerà « se in una famiglia  vi sono cinque persone, tre contro due e due contro tre; si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera ». Gesù, preso completamente dalla tensione e dal desiderio per il battesimo di sangue che sta per ricevere, si prepara, immergendovisi, nella passione che accetta per la salvezza degli uomini. Con il fuoco dello Spirito che brucia, egli viene a purificare l’umanità.

Il Vangelo, per la scelta che bisogna fare di fronte a Cristo, divide, e per questo Gesù dice che non è venuto a portare la pace, gli accomodamenti, ma la divisione. La scelta di Gesù, allora, non è determinata più dai legami di sangue, che passano in secondo ordine: la scelta di Cristo è assoluta. Tale scelta è possibile se si comprende, con la sapienza evangelica, che ci fa individuare in Cristo il compimento del disegno salvifico, disposto da Dio, discernendo così i segni del tempo della salvezza.

Dagli scritti e insegnamenti spirituali del beato Doroteo di Gaza, abate.

La dolcezza  di stare vicino a Dio

San Giovanni nelle lettere cattoliche dice: « L’ amore perfetto scaccia il timore»

( 1Gv 4,18). Che cosa vuol dirci il santo con queste parole? Di quale amore e di quale timore intende parlare? Il profeta nel salmo dice: « Temete il Signore, voi tutti suoi santi » ( Sal 33,10) e possiamo trovare mille altri passi analoghi nelle sante Scritture. Dunque se perfino i santi, che hanno tanto amore per Dio, lo temono, come mai dice: « L’amore perfetto scaccia il timore »?

Il santo apostolo ci vuole indicare che ci sono due tipi di timore, l’uno iniziale, l’altro perfetto; mentre l’uno è proprio di chi, per così dire, è ancora un principiante nella vita spirituale, l’altro, invece, è il timore che provano i santi ormai pervenuti alla perfezione, al massimo grado del santo amore.  Ad esempio: uno fa la volontà di Dio per paura del castigo: costui si trova ancora all’inizio, come ho già detto, non compie ancora il bene per se stesso, ma per timore di ricevere il castigo.  Un altro fa la volontà  di Dio per amore di Dio stesso, perché vuole  sopra ogni altra cosa essergli gradito: costui sa che cosa è il bene in se stesso, costui  sa che cosa significa essere in intimità con Dio.

Ecco, questi è colui che possiede il vero amore, quello che l’apostolo chiama perfetto, e questo amore lo porta  al perfetto timore. Perché egli ormai teme  e custodisce la volontà di Dio, non più per timore di ricevere colpi  o per essere castigato, ma, come ho detto, perché ha gustato la dolcezza stessa di essere accanto a Dio e teme di perderla, terme di esserne privato. Questo timore perfetto, nato da questo amore, scaccia il timore iniziale. Ed è per questo che Giovanni dice: « L’amore perfetto scaccia il timore ». Ma è impossibile giungere  al perfetto timore, se non si passa prima per quello iniziale.

Sono tre i modi, come dice san Basilio, con cui possiamo piacere a Dio. Possiamo piacergli per timore del castigo, e siamo così nella condizione di servi, oppure pensiamo di riceverne un guadagno, e così facciamo tutto quello che ci viene ordinato in vista del nostro vantaggio e  in questo senso siamo come dei mercenari oppure facciamo il bene per se stesso e siamo nella condizione di figlio. Quando il figlio infatti arriva all’età della ragione e non fa la volontà del padre per timore del castigo o per riceverne una ricompensa, ma per amore, e mantiene per lui l’amore e il rispetto dovuti a un padre nella convinzione che tutto ciò che appartiene al padre è suo. Costui, come dicevamo, non teme più Dio di quel timore iniziale, ma ama, come di sant’Antonio: « Ormai non temo più Dio, lo amo ». E quando il Signore dopo che Abramo gli aveva sacrificato il figlio gli disse: « Ora so che tu temi Dio » (Gn 22,12) voleva parlare di quel perfetto timore che nasce dall’amore. Come avrebbe potuto  dire: « Ora so »? Perdonatemi, quali opere aveva compiuto Abramo! Aveva obbedito a Dio, aveva abbandonato tutti i suoi beni, se ne era andato in terra straniera, in mezzo ad un  popolo idolatra dove non vi era nemmeno traccia  del culto di Dio, e per di più aveva sopportato anche la terribile prova del sacrificio del figlio, e dopo tutto questo Dio gli aveva detto: « Ora so che tu temi Dio »; è chiaro  che intendeva parlare del timore perfetto, quello dei santi.  I santi non fanno  più la volontà di Dio per timore del castigo o per riceverne una ricompensa, ma perché lo amano, come ho ripetuto più volte, e temono di fare  qualche cosa contro la volontà di colui che amano.  Per questo l’apostolo dice: « L’amore scaccia il timore ». I santi non agiscono più per timore, ma temono per amore.